Unità 1 La corrente elettrica

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1 ELETTROMAGNETISMO convenzione: i simboli in grassetto vanno frecciati Modulo 2 LE CORRENTI ELETTRICHE Unità 1 La corrente elettrica 1.0 L invenzione della pila, nel 1799, segna una transizione epocale nello studio dei fenomeni elettrici e nello sviluppo delle loro applicazioni pratiche. Prima di allora elettricità significava cariche elettriche, che si ottenevano con appositi, e alquanto macchinosi, generatori elettrostatici, ma soltanto in quantità limitate. Dopo di allora, invece, elettricità prese a significare correnti elettriche, cioè flussi continui di cariche. Aprendo così la porta a un nuovo mondo di conoscenze fisiche, che culmineranno con la teoria generale dell elettromagnetismo, e si manifesteranno con una serie pressochè infinita di applicazioni pratiche, dal telegrafo a Internet, dall illuminazione elettrica agli apparecchi elettrodomestici. (una figura?) 1.1 Prime osservazioni sulla corrente elettrica Perché una corrente elettrica, cioè un flusso ordinato di cariche, attraversi un corpo con continuità si devono verificare tre condizioni. La prima è che nel corpo vi siano dei portatori di carica, cioè particelle dotate di carica elettrica libere di muoversi al suo interno, e quindi il corpo deve essere un conduttore elettrico. La seconda è che vi sia un campo elettrico che provochi il moto dei portatori. E infine occorre che il conduttore sia inserito in un circuito chiuso, costituito da una catena ininterrotta di conduttori a contatto fra loro. Esaminiamo queste condizioni nel caso di una torcia elettrica ( figura 1). Le sue parti essenziali sono la pila, l interruttore, alcuni conduttori metallici (che provvedono ai necessari collegamenti) e la lampadina, che è il conduttore nel quale ci interessa che scorra la corrente. Tutti questi oggetti, che conducono la corrente e sono in contatto l uno con l altro, formano un circuito, che può essere aperto o chiuso azionando l interruttore. La pila è il dispositivo che provvede a mantenere negli altri conduttori il campo elettrico necessario al passaggio della corrente. Fra i suoi poli, infatti, vi è una differenza di potenziale pressochè costante, che si trasmette per contatto ai conduttori ad essa collegati, nei quali si stabilisce pertanto il campo. Sicchè quando il circuito viene chiuso vi scorre una corrente. La figura 2 mostra schematicamente l andamento del potenziale elettrico nei vari punti del circuito di fig.1, avendo fissato il livello di riferimento zero al polo negativo della pila. Il potenziale ha il valore massimo in corrispondenza del polo positivo della pila e poi decresce lungo il resto del circuito, fino ad annullarsi: le sue variazioni sono quasi inapprezzabili lungo i conduttori di collegamento, mentre diventano rilevanti in corrispondenza della lampadina, nella quale, perché scorra la corrente, è necessario un campo più intenso. Il grafico di figura 2 illustra anche il funzionamento del circuito dal punto di vista energetico, supponendo che le cariche libere siano positive (sappiamo tuttavia che, nei metalli, si tratta di elettroni carichi negativamente). Attraversando la pila, cioè passando dal suo polo negativo a quello positivo, le cariche vengono sollevate portandole a un potenziale positivo e pertanto acquistano energia potenziale: questo lavoro viene svolto a spese dell energia chimica immagazzinata nella pila. Attraversando gli altri conduttori, invece, le cariche scendono lungo il campo perdendo la loro energia, che si trasforma in calore: il filamento della lampadina, infatti, si riscalda fino a emettere luce. Nel circuito di figura 1 si riconoscono le parti essenziali di qualsiasi circuito elettrico. Esso infatti comprende un generatore elettrico, un dispositivo di controllo e un dispositivo utilizzatore, chiamato anche carico, nel quale l energia delle cariche che costituiscono la corrente viene trasformata - in calore, in lavoro meccanico o in altre forme di energia per svolgere un determinato compito. In molti casi, in realtà, il generatore è esterno, si trova in una centrale elettrica, e ad esso ci si collega attraverso una presa di corrente. 1

2 Contrariamente a quanto comunemente si crede, la corrente elettrica, quando svolge i suoi compiti (come accendere una lampadina o azionare un motore), non si consuma. Per il semplice motivo che essa è esattamente la stessa in ogni punto del circuito. Quello che ci fornisce l Enel, e per cui paghiamo la bolletta, è l energia, trasportata dalla corrente, che noi utilizziamo, come si è detto, attraverso opportune trasformazioni. Gli effetti della corrente elettrica Assai numerosi e vari sono gli effetti derivanti dal passaggio di una corrente elettrica. Tali effetti hanno costituito e tuttora costituiscono un potente strumento di indagine nella ricerca fisica, e rappresentano la base scientifica di un enorme numero di applicazioni pratiche. Queste ultime riguardano l impiego dell elettricità sia come una forma di energia facilmente trasformabile in altre, sia come uno strumento eccellente per elaborare informazioni e trasmetterle a distanza. La tabella che segue elenca sinteticamente alcuni di questi effetti. Tabella 1. Alcuni effetti della corrente elettrica Effetto termico (effetto Si manifesta nella trasformazione di energia elettrica in energia termica, quando la Joule) corrente attraversa un conduttore ( 12). Effetto luminoso L emissione di radiazioni visibili (luce), può manifestarsi per effetto termico, cioè da parte di corpi riscaldati a temperature sufficientemente elevate ( xxx), come nelle lampadine a incandescenza, oppure da parte di atomi eccitati ( xxx), come nelle lampade a scarica, nei diodi emettitori e nei laser. Effetto magnetico Si manifesta quando un circuito è attraversato da corrente, producendo un campo magnetico (il circuito si comporta infatti come un magnete) ( Modulo 3, Unità 1). Effetto elettromagnetico Si manifesta quando un circuito è attraversato da corrente che varia rapidamente nel o irraggiamento tempo, producendo un campo elettromagnetico (il circuito si comporta cioè come una antenna trasmittente, irraggiando energia) ( Modulo 3, Unità 4). Effetto meccanico Si manifesta per l azione di forze elettriche ( Modulo 1, Unità 1) oppure, come nei motori elettrici ( xxx), di forze magnetiche, con la trasformazione di energia elettrica in energia meccanica. Effetto chimico Si tratta delle trasformazioni chimiche che subiscono determinate sostanze, quando sono attraversate da una corrente ( Unità 2). Effetti fisiologici Si tratta degli effetti che provoca una corrente quando attraversa il corpo umano ( 15) Figura 1. a) Smontando un torcia elettrica si individuano le sue parti essenziali. b) Le diverse parti elettriche della torcia sono collegate in modo da formare un circuito chiuso. c) Schema elettrico del circuito: ogni elemento è rappresentato con un apposito simbolo grafico. (adattare da Mondo della Fisica, tomo B, pag. 365, aggiungendo la parte a) con foto o disegno delle parti della torcia) Figura 2. Andamento del potenziale delle cariche elettriche (supposte positive) nel circuito di figura I portatori di carica nei metalli e il loro moto. Le sostanze che conducono la corrente elettrica possiamo distinguerle in varie famiglie, a seconda del tipo dei portatori di carica in esse presenti. Una di queste è la famiglia dei semiconduttori ( Tomo V, pag. xxx), nei quali alla conduzione elettrica provvedono sia elettroni, carichi negativamente, sia lacune, cariche positivamente (queste ultime sono create da elettroni mancanti che producono negli atomi un eccesso di cariche positive). Un altra è la famiglia delle soluzioni elettrolitiche ( figura 3), dove i portatori di carica sono ioni, cioè atomi o gruppi di atomi che hanno perso o acquistato elettroni, prodotti dalla dissociazione di molecole di sali, acidi o basi quando queste sostanze vengono sciolte nell acqua. E ve ne sono altre ancora. La categoria di conduttori più importante, tuttavia, è quella dei metalli, di cui ora ci occupiamo. Essi sono i migliori conduttori di elettricità perché al loro interno vi sono numerosissimi elettroni liberi, chiamati elettroni di conduzione: tipicamente un elettrone libero per atomo. Ciò corrisponde, nel caso del rame, a circa elettroni/m 3 ( Esempio 1). 2

3 In realtà in un atomo di metallo isolato anche gli elettroni esterni rimangono legati al nucleo. La situazione, però, cambia drasticamente quando si considera un corpo metallico, cioè un aggregato di atomi. E qui ricordiamo che i metalli hanno una struttura cristallina (più precisamente microcristallina, come si può osservare al microscopio), con gli atomi, vicinissimi, disposti a formare un reticolo regolare che si ripete sempre uguale. In una struttura di questo tipo gli elettroni più esterni di ogni atomo sono soggetti anche alle forze elettriche esercitate dai nuclei e dagli elettroni degli atomi circostanti: il risultato è che il legame fra un elettrone e il suo atomo si indebolisce fortemente e viene vinto dall agitazione termica. Questi elettroni, così, diventano liberi di muoversi all interno del cristallo, come le molecole di un gas in un contenitore, e si parla infatti di gas di elettroni (o mare di Fermi, dal nome del fisico che per primo studiò questo argomento). Essi, tuttavia, restano confinati nel metallo, grazie alle forze attrattive esercitate dall insieme degli ioni positivi che ne costituiscono il reticolo cristallino. Come si manifesta, in questa struttura, l agitazione termica? Gli ioni del metallo vibrano attorno alle loro posizioni di equilibrio, mentre gli elettroni liberi si muovono a caso, seguendo traiettorie a zig zag a seguito degli urti che subiscono con gli ioni del reticolo cristallino ( figura 4 a). Ma questo moto disordinato non costituisce una corrente elettrica. Infatti, trattandosi di un moto casuale, il numero degli elettroni che all interno del metallo si spostano in un dato senso è sempre uguale, in media, al numero di quelli che si spostano nel senso opposto. Notate che in un metallo gli elettroni, anche in assenza di un campo elettrico, si muovono spontanemente a causa dell agitazione termica. Ciò non avviene però allo zero assoluto. Esempio 1. Calcoliamo il numero di elettroni liberi in 1 m 3 di rame. Sapendo che ogni atomo di rame libera un elettrone, il calcolo si riduce a quello del numero di atomi contenuti in 1 m 3 di rame. I dati necessari sono la densità del metallo, = 8, kg/m 3, che rappresenta la massa di 1 m 3 di rame, e la sua massa atomica, che troviamo nella tavola periodica degli elementi a pag. xxx: m Cu = 63,5 u = 63,5 1, kg = 1, kg. Il numero di atomi, e quindi di elettroni liberi, in 1 m 3 di rame è dunque: 8, / 1, = 8, Esempio 2. Calcoliamo l energia cinetica e la velocità quadratica media degli elettroni liberi di un metallo dovute all agitazione termica. Ammettiamo che gli elettroni liberi di un metallo si comportino come le molecole di un gas perfetto e che il metallo, cioè sistema costituito dagli elettroni e dagli ioni del reticolo, si trovi in condizioni di equilibrio termodinamico a una data temperatura T. In tal caso l energia cinetica media degli elettroni ( xxx) è: E c = ½ m e v qm 2 = 3/2 kt dove m e è la massa dell elettrone, v qm 2 la velocità quadratica media (cioè la media dei quadrati delle velocità) degli elettroni e k la costante di Boltzmann. Alla temperatura ambiente di 20 C (T = 293 K) si ha: E c = 3/2 kt = 1,5 1, = 6, J = 6, /1, ev = 0,038 ev. Dall espressione dell energia cinetica si ricava la velocità quadratica media, che a temperatura ambiente vale: v qm = (3kT/m e ) 1/2 = (3 1, /9, ) 1/2 = 1, m/s Approfondimento 1. Il rumore termico: la voce degli elettroni. Abbiamo appena detto che il numero degli elettroni che in un metallo, a causa dell agitazione termica, si spostano in un dato senso è uguale, in media, al numero di quelli che si spostano nel senso opposto. In media certamente, ma non esattamente a ogni istante di tempo. Ciò ha importanti conseguenze. Per fissare le idee, consideriamo un conduttore filiforme che immaginiamo suddiviso in due parti uguali. Ad ogni istante il numero degli elettroni che, a seguito del loro moto casuale, si trovano in una metà non sarà esattamente uguale al numero di quelli che si trovano nell altra metà. Si determina così uno squilibrio di carica, che si manifesta in una differenza di potenziale fra le due estremità del filo. Questa differenza di potenziale, che è tanto maggiore quanto più elevata è la temperatura del metallo (si annulla solo allo zero assoluto), varia nel tempo con andamento casuale: in media è nulla ma non lo è istante per istante. Tale tensione prende il 3

4 nome di rumore termico e il fenomeno è di grandissima importanza, concettuale e pratica, per i due motivi seguenti. Il rumore rappresenta un limite per la precisione delle misure fisiche perché contribuisce agli errori casuali ( xxx); ciò risulta evidente considerando la misura della tensione ai capi di un conduttore, ma il fenomeno è di natura assai più generale. Il rumore termico inoltre pone un limite alla trasmissione di segnali elettrici attraverso il metallo, e più in generale attraverso qualsiasi conduttore, perché si somma al segnale utile, sovrapponendosi ad esso fino, a volte, a renderlo irriconoscibile. Ciò avviene, per esempio, quando il segnale televisivo è debole e sullo schermo appare la cosidetta neve, che rappresenta appunto l effetto del rumore nei circuiti del televisore. Quando poi sintonizziamo una radio a una frequenza a cui non opera nessuna stazione trasmittente, udiamo un caratteristico fruscio, che rappresenta la voce degli elettroni dei conduttori che costituiscono i circuiti del ricevitore. Che succede, ora, se applichiamo una differenza di potenziale costante fra gli estremi di un conduttore, stabilendo un campo elettrico E al suo interno? Il conduttore non si troverà più in equilibrio elettrostatico e verrà attraversato da una corrente elettrica. A livello microscopico, infatti, gli elettroni liberi si spostano perché soggetti al campo, che esercita su ciascuno di essi una forza costante nel tempo: (1) F el = -ee Questa forza, per il secondo principio della dinamica, provoca un moto uniformenente accelerato, che si sovrappone, per il principio di indipendenza dei movimenti, al moto casuale dovuto all agitazione termica. Gli elettroni, però, non si muovono nel vuoto. Nelle loro traiettorie, infatti, essi sono soggetti a urti con il reticolo, ciascuno dei quali ne modifica la velocità in modulo, direzione e verso, dando luogo a trasferimenti di energia fra gli elettroni e i nuclei. E questi urti sono frequentissimi perché gli elettroni si muovono a velocità assai elevate, dell ordine di 10 5 m/s, e gli ioni del reticolo sono vicinissimi fra loro, a distanze dell ordine di m. L effetto frenante complessivo degli urti è equivalente a quello di una forza di attrito che agisce sugli elettroni, analoga alla resistenza del mezzo, con intensità proporzionale alla velocità, che incontra un corpo in moto in un fluido. Il risultato è che si raggiunge quasi immediatamente una situazione stazionaria il cui gli elettroni hanno una velocità media v d proporzionale all intensità della forza elettrica e quindi del campo (che cosa penserebbe di ciò Aristotele?), chiamata velocità di deriva: (2) v d = E dove la costante rappresenta la mobilità degli elettroni nel metallo. In conclusione, si ha un moto ordinato di cariche, chiamato moto di deriva, che costituisce una corrente elettrica. Un campo elettrico all interno di un conduttore? Non stiamo violando qualche regola? Assolutamente no. Perché l equipotenzialità dei conduttori vale in elettrostatica, in assenza di correnti elettriche. La formula (2) risulterebbe particolarmente gradita ad Aristotele, secondo il quale la velocità di un corpo era direttamente proporzionale alla forza ad esso applicata. Cosa che avviene effettivamente quando gli effetti degli attriti sono dominanti, come sa bene qualsiasi asino che tira un carretto. Figura 3. Da trovare, immagine al microcristallo metallico. microscopio atomico di un Figura 4. a) La traiettoria di un elettrone libero in un metallo, nel suo moto di agitazione termica, subisce brusche variazioni a causa delle interazioni con gli ioni positivi del reticolo cristallino. b) In presenza di un campo elettrico, agli 4

5 spostamenti irregolari del moto termico (linea blu) si sommano quelli del moto regolare di deriva dovuto al campo, in senso opposto a quello del campo, determinando così la traiettoria effettiva (linea rossa). 1.3 Intensità e verso della corrente elettrica Una corrente elettrica è costituita, come si è detto, da un flusso ordinato di cariche elettriche. La grandezza essenziale che caratterizza una corrente elettrica è la sua intensità, una grandezza scalare analoga alla portata di un flusso d acqua. L intensità di una corrente elettrica attraverso un conduttore è definita dal rapporto fra la quantità di carica che passa attraverso una qualsiasi sezione trasversale del conduttore in un intervallo di tempo t e l intervallo stesso: (3) i = Q/ t Alla corrente contribuiscono tutti i portatori di carica in moto: elettroni nei conduttori metallici, ioni positivi e negativi nelle soluzioni elettrolitiche, elettroni e lacune nei semiconduttori,... In una soluzione elettrolitica, per esempio, la corrente si calcola sommando le cariche trasportate in un verso dagli ioni positivi e quelle trasportate nel senso opposto da quelli negativi. La corrente elettrica si misura con strumenti chiamati amperometri, di cui ci occuperemo nel paragrafo 9. Nel sistema SI l unità di misura della corrente è l ampere (A), chiamato così in onore del fisico francese André Marie Ampère ( ) i cui studi sugli effetti magnetici della corrente costituiscono la base per la definizione operativa di questa unità ( pag. xxx). Si tratta di un unità importante perchè è una grandezza fondamentale del sistema SI: dall ampere derivano infatti le unità delle altre grandezze elettriche e di quelle magnetiche. La definizione dell unità di carica elettrica (il coulomb) è legata a quella dell ampere. Infatti si pone: 1 A = 1 C / 1 s E quindi 1 coulomb è la carica trasportata da una corrente di 1 ampere in 1 secondo. Per fissare le idee, diciamo che le correnti che alimentano gli apparecchi elettrici di casa hanno intensità dell ordine dell ampere (da frazioni di ampere, i più sobri, fino ad alcuni ampere, i più voraci, come le stufe elettriche o gli scaldabagni). Correnti assai più intense (attorno a 1000 A) sono necessarie per azionare i locomotori elettrici; ancora più intense (fino a A) sono quelle che si possono raggiungere nelle scariche elettriche dei fulmini, che durano però soltanto per tempi brevissimi (frazioni di millesimo di secondo). Assai meno intense, invece, sono generalmente le correnti usate come supporto di segnali, cioè per trasmettere o elaborare informazioni. Un tipico microprocessore, per esempio, può assorbire 10 ampere, ma il chip può contenere un miliardo di transistori, sicché ciascuno di questi viene alimentato con correnti dell ordine dei miliardesimi di ampere. Hanno intensità bassissima anche le correnti che trasportano i segnali nei neuroni del nostro sistema nervoso. Esempio 3. Calcoliamo la velocità di deriva degli elettroni in un conduttore. Vogliamo calcolare la velocità di deriva degli elettroni in un filo di rame con sezione di 1 mm 2 attraverso il quale scorre una corrente di intensità 1 A. Consideriamo un cilindretto costituito da un tratto di filo lungo 1 mm, nel quale si trovano ( Esempio 1) n = 8, (1mm 3 /1 m 3 ) = 8, elettroni di conduzione. Una corrente con intensità di 1 ampere corrisponde al passaggio di 1 C, cioè 1/1, = 6, elettroni, al secondo. Il tempo necessario perché tutti gli elettroni contenuti nel cilindretto percorrano 1 mm, cioè passino attraverso la sezione del filo che ne costituisce la base, è t = 8, /6, = 13,6 s. Quindi la velocità di deriva degli elettroni è v d = 1 mm/13,6 = 7, m/s. Noterete che questa velocità è estremamente più piccola (nove ordini di grandezza!) di quella del moto di agitazione termica a temperatura ambiente che abbiamo calcolato nell Esempio 2. 5

6 Ma se la velocità di deriva degli elettroni è così bassa, come è possibile che un segnale telefonico viaggi a velocità prossima a quella della luce? La risposta è semplice. L elettrone che parte da un telefono a Roma non è lo stesso che arriva a Milano, sennò ci metterebbe un tempo veramente enorme (provate a calcolarlo con i dati dell Esempio 3). Quello che si propaga lungo la linea telefonica fra le due città è il campo elettrico, che mette in moto gli elettroni liberi presenti nei conduttori che la costituiscono. Tutto avviene come quando colleghiamo a un rubinetto aperto un estremo di lunga conduttura piena d acqua, e l acqua esce quasi istantaneamente dall altro estremo. E importante osservare che la definizione precedente (3) vale quando il flusso delle cariche è uniforme e di conseguenza l intensità della corrente è costante nel tempo: si parla allora di corrente continua. In tal caso la quantità di carica che attraversa il conduttore non dipende dall intervallo di tempo considerato, ma soltanto dalla sua durata t, e quindi la scelta dell intervallo è ininfluente. In generale, tuttavia, la corrente può essere prodotta da un flusso di cariche non uniforme e quindi cambiare di intensità da istante a istante: si parla allora di corrente variabile. Per l intensità di una corrente variabile nel tempo occorre una diversa definizione, analoga a quella usata per la velocità istantanea di un moto non uniforme. Si considera infatti, a ciascun istante di tempo t, la quantità di carica Q che passa in un intervallino di durata estremamente breve fra t e t+ t. Passando al limite per t tendente a zero, si ha: (4) i t dq dt Il procedimento seguito per ottenere la formula (4) è del tutto analogo a quello usato in meccanica per definire la velocità istantanea, come derivata dello spostamento rispetto al tempo. Cioè l intensità di corrente istantanea è la derivata della carica (che attraversa una qualsiasi sezione trasversale del conduttore) rispetto al tempo. Il verso della corrente elettrica Il verso di una corrente elettrica è stabilito come quello che va dai punti a potenziale più alto ai punti a potenziale più basso e corrisponde quindi al senso in cui si muoveono i portatori di carica positiva. Nei conduttori metallici, quindi, il verso convenzionale della corrente è opposto a quello in cui si muovono gli elettroni. Questa scelta, che nel caso dei metalli risulta alquanto scomoda, risale all Ottocento, prima della scoperta dell elettrone. E vero che successivamente si sarebbe potuto cambiare la scelta, definendo positiva la carica dell elettrone e negativa quella opposta, ma è chiara la convenienza pratica di mantenere la vecchia convenzione; che del resto ha soltanto lo scopo di fissare le idee nello studio dei circuiti. Approfondimento 2. L elettricità naturale. Il medico bolognese Luigi Galvani, collegando al corpo di una rana spellata gli estremi di un arco metallico costituito da una sbarretta di rame e una di zinco, osservò che i muscoli dell animale subivano una contrazione. E allora attribuì il fenomeno all elettricità naturale dell animale. Ma in seguito Alessandro Volta dimostrò che questa interpretazione non era corretta ( Unità2, pag.xxx). Galvani, tuttavia, non aveva completamente torto. Studi successivi, infatti, dimostrarono che tutti gli animali sono sede di attività elettriche naturali. Il nostro cuore, per esempio, funziona grazie a impulsi elettrici che ne stabiliscono il ritmo; un dispositivo artificiale, il segnapassi cardiaco o pacemaker, viene impiantato all'interno del corpo quando gli impulsi naturali risultano insufficienti. Anche il funzionamento del cervello, come di tutto il sistema nervoso, è basato sulla trasmissione e sulla elaborazione di segnali elettrici: senza di essi le informazioni raccolte dagli organi di senso (l'occhio, l'orecchio, ) non potrebbero raggiungere il cervello, e sarebbe anche impossibile azionare i muscoli. In alcune specie animali, inoltre, si sono sviluppati dei particolari organi elettrici: nei pescecani, per esempio, per rivelare la presenza di prede grazie ai campi elettrici 6

7 generati da esse; in altri pesci, come i pesci torpedine o le cosidette "anguille elettriche", per generare impulsi elettrici con cui stordire le prede o difendersi dai predatori. Anche molte tecniche usate dai medici a scopo diagnostico sono basate proprio su misure dei segnali elettrici corporei: cardiaci (elettrocardiografia), cerebrali (elettroencefalografia), muscolari (elettromiografia). Figura 5. La velocità di deriva degli elettroni in un filo metallico percorso da corrente si può calcolare considerando un tratto di filo di lunghezza data, valutando quanti elettroni liberi vi sono contenuti e quanto tempo occorre perché questi ne escano. (adattare da Amaldi, La Fisica. vol. 3, pag. 148) Figura 6. figura di pesce elettrico con dida appropriata 1.4 La prima legge di Ohm Esperimento 1. Le lampadine oppongono resistenza al passaggio della corrente elettrica. Procuratevi il seguente materiale: una pila da 4,5 volt e una da 9 volt, due lampadine da 4,5 volt con relativi portalampada e cavetti per i collegamenti (meglio se dotati di coccodrilli per facilitare le connessioni). 1. Realizzate il circuito rappresentato nella parte a) della figura 7. La lampadina si accenderà brillando normalmente. 2. Realizzate il circuito rappresentato nella parte b) della figura. Le lampadine si accenderanno entrambe, questa volta però emettendo una luce piuttosto debole. 3. Sostituite la pila da 4,5 V con quella da 9 V nel circuito precedente (parte c) della figura). Le lampadine brilleranno entrambe normalmente, come nella prova 1. Se disponete di un tester, usatelo come amperometro per misurare l intensità delle corrente erogata dalla pila nelle tre prove, verificando le conclusioni tratte nel testo che segue. Nell esperimento precedente abbiamo usato le lampadine come indicatori dell intensità della corrente. Ammettendo che la luce che esse emettono sia tanto più intensa quanto più intensa è la corrente che le attraversa, possiamo concludere che la corrente nel circuito era la stessa nelle prove 1 e 3, mentre nella prova 2 era più debole. Ma perché la corrente nella prova 2 era più debole che nella 1? Ciò si spiega ammettendo che una lampadina opponga una certa resistenza al passaggio della corrente, e quindi due lampadine offrano una resistenza maggiore di quella di una lampadina, riducendo di conseguenza, a parità di tensione applicata totale, l intensità della corrente che vi scorre. Il risultato della prova 3, infine, mostra che per vincere la resistenza doppia, offerta dalle due lampadine, occorre usare una pila di tensione doppia. Studiando sperimentalmente la relazione fra l intensità della corrente che scorre in un conduttore e la differenza di potenziale ai suoi estremi si è trovato che nei conduttori metallici l intensità della corrente e la tensione sono legate da una relazione di proporzionalità diretta. Questa legge, chiamata prima legge di Ohm, fu stabilita nel 1827 dal fisico tedesco Georg Simon Ohm ( ), traendo ispirazione dalla legge di Fourier sulla conduzione del calore ( Tomo II, pag. xxx). In formula, indicando la differenza di potenziale con il simbolo V, come si usa correntemente, e l intensità della corrente con i: (5) V = R i dove la costante R è una grandezza caratteristica del conduttore, che dipende dalla sua forma, dal metallo di cui è fatto e dalla sua temperatura ( 6). Questa grandezza prende il nome di resistenza elettrica e nel sistema SI si misura in ohm ( ). Dalla formula (3) si ricava: 1 = 1 V / 1 A Una simulazione interattiva della legge di Ohm? Al sito: 7

8 cioè 1 ohm è la resistenza di un conduttore che è percorso da una corrente di 1 ampere quando la tensione ai suoi terminali è di 1 volt. In realtà la proporzionalità diretta fra intensità di corrente e tensione non è verificata soltanto per i conduttori metallici, ma anche per altre categorie di conduttori, come le soluzioni elettrolitiche e i semiconduttori omogenei, che perciò sono chiamati in generale conduttori ohmici. La resistenza di un conduttore ohmico si può misurare applicando ai suoi estremi una tensione nota (V), misurando l intensità della corrente (i) che lo attraversa e utilizzando quindi la formula (3) scritta nella forma R = V/i. Esistono appositi strumenti, chiamati ohmetri, che svolgono direttamente queste operazioni. Ma in pratica si usano come ohmetri gli strumenti universali ( 11). Esempio 4. Determiniamo la resistenza di un conduttore ohmico. Misurando la corrente che attraversa un conduttore ohmico e la tensione ai suoi estremi otteniamo i seguenti risultati: i = 10 ma, V = 25 volt. Applicando la prima legge di Ohm concludiamo pertanto che la resistenza del conduttore è: R = V/i = 25/0,01 = Approfondimento 3. Causa ed effetto nella legge di Ohm. Potremmo esprimere la prima legge di Ohm dicendo che l intensità della corrente in un conduttore ohmico è direttamente proporzionale alla tensione applicata ai suoi terminali: i = V/R. Implicitamente ammettendo che la tensione applicata al conduttore rivesta il ruolo di causa e la corrente che vi scorre ne sia l effetto. Oppure potremmo dire che la tensione che si stabilisce ai capi del conduttore è direttamente proporzionale all intensità della corrente che vi facciamo scorrere: V = R i. Questa volta ammettendo che la corrente rivesta il ruolo di causa e la tensione ne sia l effetto. In realtà sono possibili entrambe le situazioni. Infatti, se colleghiamo il conduttore a un generatore di tensione costante, che stabilisce cioè ai suoi terminali una data differenza di potenziale, la tensione è la causa che produce la corrente. Ma se, invece, colleghiamo il conduttore a un generatore di corrente costante, che eroga cioè una data corrente, sarà la corrente che, attraversando il conduttore, produce ai suoi estremi la differenza di potenziale. In generale non ha senso domandarsi quale delle due grandezze sia la causa e quale l effetto. Infatti la legge di Ohm si limita a stabilire che esiste una relazione, chiamata relazione costitutiva, di proporzionalità diretta fra l intensità della corrente che attraversa il conduttore e la tensione fra i suoi terminali. E i conduttori non ohmici? Essi vengono caratterizzati, in generale, attraverso la relazione fra l intensità (i) della corrente che vi scorre e la tensione (V) ai loro terminali. Che può essere stabilita teoricamente in forma analitica oppure ricavata sperimentalmente facendo variare la tensione applicata al conduttore e misurando la corrente, in modo da ottenere la cosidetta curva caratteristica i-v (figura 8). Per i conduttori non ohmici, naturalmente, non ha senso definire una resistenza come rapporto fra tensione e corrente. 1.5 I resistori I conduttori ohmici costruiti in modo da presentare un determinato valore di resistenza si chiamano resistori (a volte chiamati anche resistenze, ma impropriamente) e negli schemi elettrici si rappresentano con il simbolo grafico. Sono disponibili resistori con una gamma vastissima di valori di resistenza, da frazioni di ohm a miliardi di ohm, realizzati con varie tecniche. I valori più bassi si ottengono utilizzando fili metallici oppure depositando sottili strati di metallo su un supporto isolante; i valori più alti pressando ad alta temperatura polveri conduttrici e isolanti opportunamente dosate. Oltre ai resistori fissi si impiegano anche vari tipi di resistori variabili (figura 10), che sono dotati di un cursore (un contatto mobile) la cui posizione ne determina il valore di resistenza. Un tipico resistore variabile è costituito da una bobina di filo conduttore, sulla quale scorre il contatto 8

9 mobile in modo da variare la lunghezza del filo, e quindi la sua la resistenza, che si trova fra un estremo del filo e il contatto. Figura 7. a) La lampadina si accende normalmente; b) Le due lampadine si accendono, ma emettono una luce piuttosto debole; c) Le due lampadine si accendono entrambe normalmente, emettendo luce come in a). (Adattare da Il mondo della fisica, vol. B, pag. 372) Figura 8. Curve caratteristiche corrente-tensione di alcuni conduttori, attribuendo un segno positivo o negativo alla corrente a seconda del senso in cui essa scorre. a) La curva caratteristica dei conduttori ohmici è sempre una retta passante per l origine (dove a tensione zero corrisponde corrente zero), indicando la proporzionalità fra corrente e tensione; b) La curva caratteristica di un diodo a giunzione è rappresentata analiticamente dalla relazione i = i 0 (exp(v/kt) 1): si ha una corrente apprezzabile soltanto quando la tensione è positiva; c) La curva caratteristica di una lampadinetta al neon indica che la corrente è trascurabile fintanto che il valore assoluto della tensione applicata è inferiore a un valore di soglia, oltre il quale la corrente aumenta rapidamente perché nel gas s innesca una scarica (questa volta, come nel caso di un conduttore ohmico, la corrente può scorrere in entrambi i sensi); d) La curva caratteristica di un arco elettrico ( Unità 2) presenta una particolarità: quale? Figura 9. L industria produce una grande varietà di resistori, che differiscono per i valori di resistenza, per la potenza che possono dissipare, e anche per l accuratezza del valore della resistenza. (Fotografia di vari tipi di resistori) Figura 10. I resistori variabili (a) sono usati in molti impieghi pratici. Uno di questi è il controllo del volume nelle radio e nei televisori (b). In questo impiego il resistore variabile, che prende il nome di potenziometro, è usato come partitore di tensione, per attenuare la tensione che rappresenta il segnale. Se la tensione d ingresso è V, quella V d uscita è una frazione di V proporzionale alla frazione di resistenza inserita fra il contatto mobile e il conduttore di terra. (a) fotografia di un reostato, b) schizzo a fianco) 1.6 La resistività e la seconda legge di Ohm La resistenza che offre un tubo al passaggio dell acqua è certamente tanto maggiore quanto più il tubo è lungo e stretto. Lo stesso si verifica per la dipendenza della resistenza elettrica dalla forma di un conduttore ohmico. Più precisamente, a seguito di una serie di esperimenti, Ohm stabilì (seconda legge di Ohm) che la resistenza di un filo conduttore (o comunque di un conduttore ohmico a sezione costante) è direttamente proporzionale alla sua lunghezza L e inversamente proporzionale alla sua sezione S. In formula: (6) R = L/S dove la costante prende il nome di resistività e dipende dalle proprietà del materiale di cui è fatto il conduttore (tabella 2) e dalla sua temperatura. La resistività si misura in unità di ohm metro ( m), come si può dedurre dalla formula (6), sebbene spesso, per facilitare i calcoli pratici, si utilizzi l unità mm 2 /m (il valore numerico della resistività di un metallo in tale unità rappresenta infatti la resistenza in ohm di un filo di quel metallo lungo 1 m con sezione di 1 mm 2 ). La definizione di questa grandezza consente di porre in termini quantitativi la distinzione fra conduttori e isolanti elettrici (molti dei quali presentano un comportamento 9

10 approssimativamente ohmico). La figura 11 mostra in particolare che fra i migliori conduttori e i migliori isolanti la resistività varia di oltre 20 ordini di grandezza. Esempio 5. Calcoliamo la resistenza di 10 km di linea elettrica. Consideriamo un tratto lungo 10 km di una linea elettrica per il trasporto a distanza dell energia elettrica, che è costituita da conduttori di alluminio con sezione di 2,5 cm 2. La resistività dell alluminio (tabella 2) = 0,028 mm 2 /m. La lunghezza totale dei conduttori è L = 20 km = m; la sezione è Tabella 2. Resistività di alcuni metalli e leghe metalliche (a 20 C) Metallo o lega ( m) ( mm 2 /m) argento 1, ,016 rame 1, ,017 oro 2, ,022 alluminio 2, ,028 ferro ,10 costantana 4, ,45 acciaio inossidabile 7, ,72 nichel-cromo 1, ,1 S = 2,5 cm 2 = 250 mm 2. Utilizzando la formula (6) si ha pertanto R = L/S = 0, /250 = 2,24. Esperimento 2. La resistenza di una lampadina è molto minore del previsto. Procuratevi una lampadinetta e uno strumento universale (cioè un tester 11). 1. Leggete i dati incisi sulla ghiera della lampadinetta. Troverete scritto, per esempio: 12 V 0,25 A. Ciò significa che la sua resistenza elettrica è R = 12/0,25 = Misurate con lo strumento la resistenza della lampadina. Troverete certamente un valore assai inferiore, per esempio 5, con una discrepanza che non si può certamente attribuire all errore di misura. Il fabbricante ha inserito dati errati? La nostra misura è completamente sbagliata per qualche motivo? Oppure c è dell altro? Per spiegare lo strano risultato dell esperimento precedente occorre riflettere sul fatto che quando la lampadina si accende il suo filamento diventa incandescente, cioè si porta a una temperatura assai alta (attorno a 2700 C). Orbene, come avevamo già detto, la resistenza di un conduttore dipende dalla temperatura. Più precisamente, essa aumenta con la temperatura. Ciò perché all aumentare della temperatura cresce l ampiezza delle vibrazioni degli ioni che costituiscono il reticolo cristallino del cristallo, sicchè gli urti con gli elettroni liberi diventano più frequenti. Ciò ostacola maggiormente il moto di deriva degli elettroni. E di conseguenza la resistenza elettrica aumenta. Concludiamo allora che la resistività dei metalli aumenta al crescere della temperatura. Siccome la legge di variazione è approssimativamente lineare in un vasta gamma di temperature, ogni metallo è caratterizzato da un coefficiente di temperatura della resistività, con valori tipicamente compresi fra 3 e 5 parti per mille per grado (per esempio, un aumento della temperatura di 30 C provoca un aumento delle resistività, e quindi della resistenza, di circa il 10%). E ciò suggerisce immediatamente l idea di usare un conduttore metallico come termometro ( La Fisica della tecnologia 1). Altri tipi di conduttori presentano comportamenti diversi. Nei semiconduttori, per esempio, all aumentare della temperatura la resistività diminuisce anzichè aumentare, e lo stesso avviene per altri materiali, fra cui il carbone. Alcuni metalli, poi, portati a temperature bassissime presentano un fenomeno particolarissimo e veramente straordinario: la resistività si annulla sicché la loro resistenza elettrica diventa esattamente zero. Di questo fenomeno, che prende il nome di superconduttività, ci occuperemo in seguito ( Tomo V, pag ) dato che la sua interpretazione è basata sulla meccanica quantistica. La Fisica della tecnologia 1. I sensori resistivi. Nella scienza e nella tecnica conviene spesso ricondurre misure di grandezze non elettriche a quelle di grandezze elettriche (correnti, tensioni, resistenze,...). Per questo sono assai utili i 10

11 dispositivi, chiamati trasduttori o sensori, che sfruttano la dipendenza dei parametri elettrici di determinati materiali dalla temperatura, dall intensità della luce o da altre grandezze non elettriche. Vi sono sensori resistivi, per esempio, che permettono di eseguire misure della temperatura o dell allungamento di un corpo, traducendo le variazioni di queste grandezze in variazioni della loro resistenza e fornendo così in uscita un segnale elettrico, facilmente rivelabile e manipolabile. I misuratori di allungamento, chiamati estensimetri, utilizzano la variazione di resistenza che subisce un conduttore quando viene allungato, come stabilisce la seconda legge di Ohm. Infatti quando un conduttore di lunghezza L e sezione costante S viene stirato, la sua lunghezza aumenta di L e la sua sezione diminuisce di S (queste due grandezze sono generalmente legate fra loro dato che in prima approssimazione il volume del conduttore resta costante). Di conseguenza, chiamando R la resistenza del conduttore in condizioni normali, quella del conduttore allungato diventa R+ R = (L+ L)/(S+ S), cioè aumenta dato che L ha segno positivo e S segno negativo. E quindi dalla variazione della resistenza si può ottenere l allungamento L che l ha provocata. E poi chiaro che misure di allungamento (oppure di accorciamento) consentono di eseguire misure indirette di altre grandezze fisiche. Sapreste immaginare l uso di questi dispositivi per realizzare una bilancia? Un altro tipo di sensori resistivi sono i termometri elettrici a resistenza, che sfruttano le variazioni con la temperatura della resistività dei metalli, traducendo così le variazioni di temperatura in variazioni di resistenza. Essi permettono di misurare temperature più alte o più basse dei termometri a mercurio. Negli esposimetri delle macchine fotografiche si usano poi delle fotoresistenze, fatte di materiali la cui resistività è inversamente proporzionale all intensità della luce che li colpisce, traducendo così in variazioni di resistenza le variazioni di illuminazione. Fra i sensori resistivi rientrano anche i microfoni a carbone usati negli apparecchi telefonici fissi. Sul principio di funzionamento di questi dispositivi informatevi voi stessi. Esempio 6. Calcoliamo la temperatura di un forno elettrico con un termometro al platino. I termometri al platino sono usati per misurare temperature relativamente alte, sfruttando le variazioni di resistività di questo metallo, che sono approssimativamente proporzionali alle variazioni di temperatura. A temperatura ambiente (293 K) si ha: 293 = 1, m, con un coefficiente di temperatura di Pt = 3, K -1. Supponiamo che la resistenza del termometro a questa temperatura sia R = 15,1. Vogliamo determinare la temperatura T di un forno elettrico quando la resistenza del termometro è R = 40,2. Dato che la resistenza di un conduttore metallico è direttamente proporzionale alla resistività del metallo, e questa si rappresenta in funzione della temperatura nella forma: T = 293 (1 + (T 293)), avremo: R = R(1+ (T 293)), cioè 16,2 = 15,1(1+3, (T-293)). Risolvendo l equazione, si ha: T = 716 K. Figura 11. Resistività di alcune sostanze a temperatura ambiente, in scala logaritmica. Si nota che nel grafico i conduttori metallici sono molto raggruppati e ben separati dagli isolanti. Caratteristiche intermedie presentano altre sostanze, fra le quali rientrano i semiconduttori. (Adattare da Amaldi, La Fisica, vol. 3, pag. 150, modificata come segue; a) sostituendo la scritta conduttori metallici con metalli; b) eliminando le sostanze Cu 2 O, ZnO, ambra; c) aggiungendo le seguenti sostanze, non raggruppate con altre: carbone , soluzione satura di NaCl 0,044, sangue 1,5, grasso 25; d) aggiungendo la seguente sostanza raggruppata con gli isolanti: polietilene ) Figura 12. Dipendenza dalla temperatura della resistività di alcuni metalli. Due osservazioni: 1) gli andamenti sono molto simili, a parte un fattore di scala, indicando che i coefficienti di temperatura di questi metalli sono molto prossimi; 2) le curve non si discostano molto da delle rette, indicando che le variazioni della resistività sono approssimativamente proporzionali alle variazioni della temperatura. (adattare da Hecht, pag. 629, eliminando lo zinco e il ferro) Figura 13. Fotografia di una fotoresistenza o di un estensimetro con dida da fare. 11

12 1.7 Collegamento in serie e in parallelo. Quando si guasta una lampadinetta dell albero di Natale si spengono anche tutte le altre. Questo avviene perché esse sono collegate in serie, cioè una di seguito all altra, in modo da essere attraversate dalla stessa corrente ( figura 14). Sicché quando si brucia il filamento di una di esse è come se venisse aperto un interruttore: il circuito s interrompe e non passa più corrente. In generale, due o più elementi di circuito sono collegati in serie quando sono attraversati dalla stessa corrente. Sono invece collegati in parallelo gli apparecchi elettrici di casa ( figura 15), in modo da essere tutti alimentati dalla stessa tensione: ciascuno di essi è collegato indipendentemente alla rete elettrica sicché essi possono essere accesi o spenti senza influire l uno sull altro (a meno che non se ne accendano troppi contemporaneamente e allora interviene il limitatore di corrente dell impianto elettrico, il quale...). In generale, due o più elementi di circuito sono collegati in parallelo quando la tensione ai loro estremi è la stessa. Resistori in serie Disponiamo in serie due resistori, rispettivamente di resistenza R 1 ed R 2, e poi li colleghiamo a un generatore di tensione V, come mostrato nella parte a) della figura 16. Vogliamo calcolare l intensità i della corrente che li attraversa. Per ricavarla, applichiamo a ciascun resistore la prima legge di Ohm. Chiamando i l intensità di corrente incognita, la tensione ai capi del primo sarà V 1 = R 1 i; quella ai capi del secondo, V 2 = R 2 i. Ora la tensione V che il generatore stabilisce fra i punti A e B del circuito è evidentemente la stessa che è applicata all insieme dei due resistori e quindi è pari alla somma delle tensioni ai capi dei due elementi, cioè V = V 1 +V 2. Sostituendo in tale relazione le espressioni delle tensioni ricavate prima si ha: V = R 1 i + R 2 i. Da cui si ricava: i = V/(R 1 + R 2 ) Esaminando questa formula, si osserva che i due resistori in serie si comportano come un unico resistore, un resistore equivalente, di resistenza R s = R 1 + R 2, cioè pari alla somma della due resistenze. Tale risultato può essere facilmente generalizzato per stabilire che la resistenza equivalente di n resistori collegati in serie è uguale alla somma delle loro resistenze: (7) R s = R 1 + R R n Questa resistenza equivalente, ovviamente, è sempre maggiore della resistenza più alta di ciascuno dei resistori collegati in serie. Resistori in parallelo Disponiamo in parallelo due resistori, rispettivamente di resistenza R 1 ed R 2, e poi li colleghiamo a un generatore di tensione V come mostrato nella parte b) della figura 16. Vogliamo calcolare l intensità i della corrente totale erogata dal generatore, che è data dalla somma delle correnti che attraversano i due resistori: i = i 1 + i 2. Per ricavare le correnti i 1 e i 2, applichiamo a ciascun resistore la prima legge di Ohm. L intensità della corrente che attraversa il primo è i 1 = V/R 1 ; quella della corrente attraverso il secondo, i 2 = V/R 1. Sostituendo i 1 e i 2 nell espressione della corrente totale si ricava: i = V/R 1 + V/R 2 = V(1/R 1 + 1/R 2 ) Esaminando questa formula, si osserva che i due resistori in parallelo si comportano come un unico resistore, un resistore equivalente, la cui resistenza R p è data dalla formula: 1/R p = 1/R 1 + 1/R 2. Tale risultato può essere facilmente generalizzato per stabilire che l inverso della resistenza equivalente di n resistori collegati in parallelo è la somma degli inversi delle loro resistenze: (8) 1/R p = 1/R 1 + 1/R /R n 12

13 Questa resistenza equivalente, in particolare, è sempre minore della resistenza più bassa di ciascuno dei resistori collegati in parallelo. Nel caso di due resistori in parallelo può convenire esprimere la resistenza equivalente nella forma: R p = (R 1 R 2 )/(R 1 + R 2 ) Esempio 7. Colleghiamo a una pila tre resistori: in serie e in parallelo. Con una pila da 9 volt e tre resistori di resistenza R 1 = 10 k, R 2 = 1 k, R 3 = 100, costruiamo i circuiti mostrati nella figura 17, collegando i tre resistori in serie (parte a) della figura) e in parallelo (parte b) della figura). Vogliamo calcolare, nei due casi, la resistenza equivalente offerta dai tre resistori e la corrente totale erogata dal generatore. Per ottenere la resistenza equivalente R s dei tre resistori collegati in serie utilizziamo la formula (7): R s = R 1 + R 2 + R 3 = = = 11,1 k. Di conseguenza la corrente erogata dalla pila avrà intensità i s = V/R s = 9 V/11100 = 8, A = 0,811 ma. Per ottenere la resistenza equivalente R p dei tre resistori collegati in parallelo utilizziamo la formula (8): 1/R p = 1/R 1 + 1/R 2 + 1/R 3 = 1/ / /100 = 0, Da cui R p = 0,011 = 90,1. Di conseguenza la corrente erogata dalla pila avrà intensità i p = V/R p = 9/90,1 = 0,0999 A = 99,9 ma. Si nota che nel secondo caso la corrente erogata è assai più intensa che nel primo: ciò è corente col fatto che la resistenza dei tre resistori collegati in parallelo è molto minore di quella degli stessi tre resistori collegati in serie. Le regole precedenti (7) e (8) in molti casi, ma non sempre, consentono di risolvere i circuiti in modo relativamente semplice. Tutte le volte, infatti, che in una rete elettrica vi sono due o più resistori collegati in serie, oppure in parallelo, questi possono essere sostituiti con un unico resistore equivalente. E queste operazioni possono essere eseguite più volte fino a semplificare la rete rappresentandola con un unico resistore equivalente. Ciò consente di ricavare la corrente totale che eroga al circuito un generatore di tensione nota e poi, passo dopo passo, ricavare le correnti e le tensioni di ciascun resistore. E questo significa risolvere un circuito. Esempio 8. Semplifichiamo una rete costituita da 7 resistori. Esaminando la rete resistiva rappresentata nella figura 18, si osserva che vi sono alcuni resistori disposti in serie e altri in parallelo. Procediamo dunque a semplificarla, cercando di ricavare un unico resistore equivalente. Sostituiamo innanzitutto i due resistori da 6 in parallelo con un unico resistore da 3 e i due resistori da 6 in serie con un resistore da 12, ottenendo quanto mostrato nella parte b). Ripetiamo poi le stesse operazioni per i due resistori da 3 in serie e i due da 12 in parallelo (parte c). Procedendo ancora allo stesso modo otteniamo infine (parte d)) un unico resistore equivalente con resistenza di 10. Esempio 9. Risolviamo un circuito comprendente 7 resistori. Vogliamo risolvere il circuito costituito da un generatore da 10 V collegato alla rete considerata nell Esempio precedente, determinando le correnti che scorrono nei diversi elementi e le tensioni ai capi di essi. La corrente che eroga il generatore, dato che la rete è equivalente a un resistore da 10, ha intensità i = 10/10 = 1 A. Questa corrente scorre nel resistore da 7, ai capi del quale vi sarà pertanto una tensione di 1 7 = 7 volt. La tensione applicata al resto del circuito si ottiene sottraendo la tensione ai capi di questo resistore da quella del generatore, ottenendo così: 10 7 = 3 volt. Conoscendo questa tensione si ricava immediatamente la corrente che scorre nel resistore da 12 : 3/12 = 0,25 A. E andando avanti così, passo dopo passo, si ricavano tutte le rimanenti grandezze incognite. 13

14 Esempio 10. Risolviamo un circuito con due generatori. Vogliamo risolvere il circuito mostrato nella figura 20 bis, con due generatori di tensione. Qui non possiamo semplificare nulla, dato che non vi sono resistori in serie o in parallelo. Assegnamo al punto A il potenziale V, per ora incognito, rispetto a terra. Possiamo scrivere allora, considerando i tre rami del circuito: i 1 = (V 1 V)/R 1, i 2 = (V 2 V)/R 2, i 3 = V/R 3. Ora queste equazioni sono insufficienti a ricavare le incognite. Ma le tre correnti non sono indipendenti fra loro. E infatti evidente ( Approfondimento 3) che la corrente uscente (i 3 ) dal punto A è la somma delle due correnti entranti (i 1 e i 2 ) nello stesso punto, cioè: i 3 = i 1 + i 2. Sostituendo in quest ultima equazione le espressioni delle correnti scritte sopra, si ottiene: (V 1 V)/R 1 + (V 2 V)/R 2 = V/R 3. Da cui si ricava V = (V 1 /R 1 + V 2 /R 2,)/(1/R 1 + 1/R 2 + 1/R 3 ) = (5/ /3000)/(1/ / /2000) = 3,45 volt. Sicché le intensità delle correnti sono: i 1 = (V 1 V)/R 1 = (5 3,45)/1000 = 1,55 ma, i 2 = (V 2 V)/R 2 = (4 3,45)/3000 = 0,183 ma, i 3 = V/R 3.= 3,45/2000 = 1,73 ma. Approfondimento 4. Le leggi di Kirchhoff Il primo approccio, quando si analizza un circuito, è quello di semplificarlo con le regole descritte sopra, che abbiamo utilizzato nell Esempio 9. Ma non sempre ciò è possibile, come per esempio nel caso dei circuiti mostrati nella figura 19. Per risolvere i circuiti nel caso più generale si utilizzano le due leggi di Kirchhoff, basate su principi generali dell elettromagnetismo, che permettono di scrivere un numero di equazioni pari al numero delle grandezze incognite di un circuito; risolvendo le quali si ricavano appunto queste grandezze. La prima legge di Kirchhoff, o legge dei nodi, stabilisce che la somma algebrica delle correnti che scorrono nei conduttori collegati a un punto comune, o nodo, del circuito è sempre nulla. Ossia, dicendo diversamente la stessa cosa, la somma delle correnti entranti in un nodo è sempre uguale a quella delle correnti uscenti ( figura 20 a)). In formula, considerando le correnti che scorrono negli n elementi collegati al nodo considerato e assegnando per esempio segno positivo alle correnti entranti e segno negativo a quelle uscenti: i 1 + i i n = 0. Di solito si considerano come nodi i punti a cui sono collegati tre o più elementi. Ma la legge vale ovviamente anche per i punti a cui sono collegati due soli conduttori, che dunque sono disposti in serie. E in tal caso essa stabilisce che la corrente che scorre nel secondo è uguale a quella che scorre nel primo, dato che la loro somma algebrica (considerandone una come entrante e l altra come uscente) deve essere nulla. Come del resto già sapevamo. La prima legge di Kirchhoff è una conseguenza diretta del principio di conservazione della carica elettrica. Infatti, se nella formula precedente la somma delle correnti non fosse nulla, nel nodo si avrebbe creazione oppure scomparsa di carica elettrica. La seconda legge di Kirchhoff, o legge delle maglie, stabilisce che la somma algebrica delle tensioni ai terminali degli elementi che si incontrano descrivendo nel circuito un percorso chiuso, o maglia, è sempre nulla. In formula: V 1 + V V n = 0. A volte il segno da attribuire alle tensioni degli elementi è immediatamente evidente, come nella parte b) della figura 20. Altrimenti il segno si sceglie inizialmente in modo arbitrario, ma concorde in tutti gli elementi che costituiscono il percorso chiuso, come nella formula scritta sopra, ricavando poi i segni effettivi delle tensioni dopo aver risolto le equazioni. La seconda legge di Kirchhoff dipende dal fatto che se in un circuito, partendo da un punto che si trova a un dato potenziale, descriviamo un percorso chiuso (maglia), quando ritorniamo in quel punto vi troveremo, ovviamente, lo stesso potenziale, e quindi tutte le tensioni (differenze di potenziale) lungo il percorso devono sommarsi a zero. E quindi la seconda legge di Kirchhoff è una conseguenza del fatto che il campo elettrostatico è conservativo. Figura 14. Le lampadine dell albero di Natale sono tutte collegate in serie, cioè in modo da essere attraversate tutte dalla stessa corrente. Quando se ne guasta una, perché il suo filamento si spezza, si spengono tutte. 14

15 (foto di albero di Natale e schema rappresentante una molteplicità di lampadine collegate in serie a una presa di rete) Figura 15. Gli apparecchi elettrici di casa sono collegati alla rete elettrica in parallelo, cioè in modo che la tensione che alimenta ciascuno di essi sia la stessa e ogni apparecchio possa essere acceso o spento senza influire sugli altri. Figura 16. a) I due resistori sono collegati in parallelo: infatti essi sono attraversati dalla stessa corrente i; b) I due resistori sono collegati in serie: infatti la tensione V ai loro estremi è la stessa. (adattare da Mondo della Fisica vol. B, pag. 379, eliminando i due interruttori e indicando i resistori, le correnti e le tensioni con gli indici 1 e 2 anzichè e ; nella parte a) eliminando la scritta B e sostituendo B a C) Figura 17. a) Tre resistori collegati in serie; b) Tre resistori collegati in parallelo. (come la precedente, eliminando le scritte A e B, con la scritta V = 9 volt accanto alla pila e le scritte R 1 = 10 k, ecc. accanto ai resistori) Figura 18. La rete resistiva rappresentata nella parte a) è piuttosto complessa all apparenza. Ma può essere semplificata, seguendo le regole descritte nel testo, arrivando al risultato finale indicato nella parte d). Cioè tutta la rete equivale a un unico resistore da 10. Figura 19. In questi circuiti non vi sono elementi in serie o in parallelo, che permettano di semplificarli. (Adattare da Hecht, pag. 656, eliminando le parti b) e d)) Figura 20. Un circuito è completamente determinato quando si conoscono le tensioni e le correnti per tutti gli elementi che lo costituiscono. Queste grandezze sono legate fra loro dalle leggi di Kirchhoff, applicando le quali si possono scrivere delle equazioni in numero sufficiente a ricavare tutte le incognite. a) La prima legge di Kirchhoff stabilisce che la somma algebrica delle correnti che scorrono negli elementi collegati al nodo A (come a qualsiasi altro nodo del circuito) è nulla; pertanto i 1 = i 2 + i 3 ; b) La seconda legge di Kirchhoff stabilisce che la somma algebrica delle tensioni lungo il percorso chiuso, o maglia, M (come lungo qualsiasi altra maglia) è nulla; pertanto V = v 1 + v 2. Figura 20 bis. Per risolvere questo circuito si scrive un equazione che impone alla corrente uscente dal nodo A di essere uguale alla somma delle correnti entranti. Cosa accadrebbe, secondo voi, se ciò non si verificasse? 15

16 1.8 La caratterizzazione dei generatori di tensione. I generatori di tensione, come si è detto, sono dispositivi che mantengono ai loro terminali un tensione determinata: costante nei generatori in continua di cui ora ci occupiamo, variabile nel tempo con legge assegnata in altri tipi di generatori. Esempi di generatori di tensione sono le pile, gli accumulatori, la cosidetta dinamo della bicicletta, ma la categoria è vastissima. Ed è anche assai importante per il semplice motivo che, senza generatori, non vi sarebbero correnti elettriche. In un generatore di tensione, attraversato da corrente, le cariche scorrono in verso opposto all usuale. Ragionando, per fissare le idee, in termini di cariche positive, queste si spostano infatti dal polo negativo del generatore a quello positivo, vincendo le forze repulsive del campo elettrico fra i due poli, per scorrere poi nel resto circuito. Ma per innalzare il potenziale di una carica fornendole energia si deve compiere un lavoro. E questo lavoro viene compiuto a spese di forme diverse di energia nei diversi tipi di generatori. In una cella solare, per esempio, si utilizza l energia solare (più precisamente l energia della luce solare assorbita dalla cella); in una dinamo, l energia meccanica del moto della bicicletta; nelle pile e negli accumulatori, l energia chimica immagazzinata nelle particolari sostanze in essi contenute. Un generatore in continua è caratterizzato dalla tensione V fem presente fra i suoi poli quando esso non eroga corrente, che è chiamata forza elettromotrice (f.e.m.), sebbene non sia affatto una forza (tale denominazione tuttavia ha qualche senso, in quanto rappresenta l effetto delle forze interne al generatore che vincono le forze elettrostatiche del campo), o tensione a vuoto. Questa tensione ha il seguente significato fisico: essa rappresenta il rapporto fra il lavoro L necessario a innalzare fra i poli del generatore il potenziale di una carica positiva q e il valore della carica stessa: (9) V fem = L/q Ciò è sufficiente a caratterizzare un generatore ideale di tensione. Ma i generatori ideali non esistono, nè potrebbero esistere, dal momento che un generatore siffatto, collegato a una resistenza nulla (cioè, come si usa dire, con i poli in cortocircuito) dovrebbe fornire una corrente infinita, cosa alquanto dubbia. E allora, evidentemente, per caratterizzare un generatore reale la forza elettromotrice non basta: occorre qualcos altro. Di questo, del resto, è facile convincersi misurando la tensione della pila di una torcia quando essa è spenta e poi quando invece è accesa, come mostrato nella figura 21. Quando la torcia è spenta, la pila non eroga corrente e la tensione fra i suoi poli ne rappresenta la forza elettromotrice (tensione a vuoto); ma quando la torcia è accesa la tensione (tensione sotto carico) è più bassa della precedente. E quindi è chiaro che la sola f.e.m. non è sufficiente a caratterizzare la pila. L osservazione precedente si spiega ammettendo che i generatori di tensione reali offrano sempre una certa resistenza R int, chiamata resistenza interna, al passaggio della corrente. Il suo effetto, quando il generatore eroga una corrente i, è quello di provocare una caduta di tensione R int i rispetto alla forza elettromotrice, abbassando quindi la tensione fra i poli. Se il generatore è collegato a un carico esterno di resistenza R, si ha infatti, tenendo conto che la resistenza interna è disposta in serie al carico: V fem = (R int + R)i. E quindi la tensione V = Ri applicata al carico, che coincide con quella fra i poli del generatore, è: (10) V = V fem R int i Questa tensione dipende dalla corrente erogata, assumendo il valore massimo, pari a V fem, quando la corrente è nulla. Più precisamente, la tensione V sotto carico diminuisce al crescere della corrente fino ad annullarsi quando la sua intensità assume il valore massimo possibile (corrente di cortocircuito): i max = V fem /R int. Notate però che i generatori non gradiscono il cortocircuito, e in genere smettono di funzionare correttamente quando la corrente che erogano diventa eccessiva. Una manovra vivamente sconsigliata? Mettere in cortocircuito i poli di una batteria d auto. Chiedete a un elettrauto cosa succederebbe! 16

17 La formula (10) mostra poi che la qualità di un generatore di tensione è tanto migliore quanto minore è la sua resistenza interna (cioè il suo comportamento si avvicina a quello di un generatore ideale, con resistenza interna nulla); infatti, a parità di corrente erogata, al diminuire di R int diminuisce lo scarto fra la tensione a vuoto (V fem ) e quella sotto carico (V). Per fare qualche esempio, la resistenza interna di una pila da 1,5 volt del tipo torcione è di circa 0,05 ; quella di un accumulatore per auto, di qualche centesimo di ohm. In conclusione diciamo che un generatore di tensione reale è caratterizzato da due parametri: la forza elettromotrice e la resistenza interna. Esso si rappresenta quindi con il circuito equivalente mostrato nella figura 21, costituito da un generatore ideale di tensione V fem disposto in serie a un resistore di resistenza R int. Che cosa succede quando colleghiamo in serie due o più generatori di tensione? Si sommano sia le forze elettromotrici che le resistenze interne. Come del resto è ovvio, dato il tipo di collegamento. Infatti guardando all interno di una batteria da 9 V troveremo 6 elementi da 1,5 V disposti in serie. E quando colleghiamo dei generatori in parallelo? Trovate voi stessi la risposta, considerando il caso in cui i generatori in parallelo hanno tutti la stessa forza elettromotrice (suggerimento: conviene ragionare sul circuito equivalente). Esempio 11. Determiniamo la resistenza interna di una batteria. Misurando la tensione di una pila si ottengono i seguenti valori: V 1 = 1,55 volt quando la pila non eroga corrente, V 2 = 1,45 volt quando la pila alimenta un carico che assorbe 1,25 A. La prima misura, eseguita in assenza di carico, ci fornisce direttamente la forza elettromotrice: V fem = 1,55 V. La differenza fra le due misure, V 1 V 2 = 0,1 V, rappresenta la caduta di tensione sulla resistenza interna della pila. Applicando la prima legge di Ohm, si ottiene pertanto: R int = (V 1 V 2 )/i = 0,1/1,25 = 0,08. Figura 21. Un generatore reale di tensione si rappresenta con il circuito equivalente costituito da un generatore ideale di tensione V fem disposto in serie a un resistore di resistenza R int. Così la tensione a vuoto è V fem ; la tensione sotto carico, V fem R int i. 1.9 L amperometro Lo strumento base delle misure elettriche è l amperometro. Di questo, come di altri strumenti, si distinguono due tipi in base al modo, analogico o digitale con cui si rappresentano le misure ( figura 22). L amperometro analogico o amperometro a bobina mobile ( Modulo 3, Unità 1) utilizza l effetto magnetico della corrente in una bobina posta all interno di un magnete, che provoca la rotazione di un indice rispetto a una scala. L amperometro digitale sfrutta invece la caduta di tensione in un resistore provocata dal passaggio della corrente che si vuole misurare. Questa tensione viene prima amplificata e poi applicata a un convertitore analogico-digitale: un circuito elettronico che trasforma una tensione in segnali a due livelli ( 0 e 1 ) che la rappresentano in forma numerica su uno schermo indicatore. In entrambi i casi le grandezze che caratterizzano un amperometro sono essenzialmente due: la portata o fondo scala i max, che rappresenta il valore massimo di intensità che lo strumento può misurare, e la resistenza interna r, che rappresenta la resistenza della bobinetta di un amperometro analogico oppure quella del resistore di un amperometro digitale. La resistenza interna di questi strumenti è generalmente piccola: da frazioni di ohm a qualche diecina di ohm. Per misurare la corrente che scorre attraverso un elemento di un circuito, l amperometro va disposto in serie all elemento, in modo che sia attraversato dalla stessa corrente. Il circuito, in altre parole, va prima aperto e poi chiuso inserendo l amperometro al posto dell interruzione. Ma l inserimento dell amperometro, inevitabilmente, altera la corrente che si vuole misurare. Consideriamo infatti il circuito costituito da un generatore (V) collegato in serie a un resistore (R), 17

18 nel quale scorre dunque la corrente i = V/R. Per misurare questa corrente colleghiamo un amperometro in serie al resistore, ma così facendo la resistenza totale del circuito non sarà più R ma R + r, a causa della presenza dell amperometro. Sicchè la corrente che si misura sarà: (11) i = V/(R + r) cioè minore di i. E quindi siamo in presenza di un errore di misura, che è evidentemente di tipo sistematico. L entità di questo errore dipende dal rapporto fra r ed R. Infatti possiamo riscrivere la (11) nella forma i = V/R(1 + r/r) che mostra che l errore aumenta al crescere del rapporto r/r, mentre tende ad annullarsi, e allora i i, se questo rapporto tende a zero. Ciò porta a concludere che un buon amperometro deve possedere una bassa resistenza interna. E se si deve misurare una corrente più intensa di quanto consenta la portata i max dello strumento? In tal caso si ricorre all impiego di un derivatore (shunt): un resistore di valore opportuno posto in parallelo all amperometro, il quale provvede a succhiare la corrente in eccesso aumentando così la portata dello strumento. Supponiamo per esempio che un amperometro abbia portata i max = 1 A e resistenza interna r = 0,1. Se lo vogliamo usare per misurare correnti fino a 10 A, la corrente si dovrà suddividere come segue: 1/10 attraverso lo strumento e 9/10 attraverso il derivatore. Ora quando due resistori R 1 ed R 2 si trovano in parallelo, la corrente totale si suddivide fra essi in ragione inversa alla loro resistenza (infatti, chiamando V la tensione ai loro estremi, le due correnti saranno, rispettivamente, V/R 1 e V/R 2 ). E quindi il derivatore dovrà avere una resistenza pari a 1/9 di quella dello strumento, cioè R = 0,1/9 = 0,0111. Esempio 12. Valutiamo l errore di misura introdotto da un amperometro. In un circuito di resistenza totale R = 120, per misurare la corrente che vi scorre quando è alimentato da un generatore di tensione V = 10 volt, viene inserito un amperometro con resistenza interna r = 10. L intensità della corrente prima dell inserimento dello strumento è: i = V/R = 10/120 = 83,3 ma. Lo strumento misura invece: i = V/(R + r) = 10/( ) = 76,9 ma. L errore relativo è pertanto (83,3 76,9)/83,3 = 0,077 = 7,7%. Con un amperometro migliore, avente r = 1, avremmo ottenuto i = 10/121 = 82,6 ma, con errore relativo 0,0084 = 0,84% Il voltmetro. Un voltmetro, lo strumento usato per misurare la tensione, non è altro che un amperometro, in serie al quale è stato disposto un resistore R di valore opportuno. La misura della corrente attraverso l amperometro consente infatti di risalire al valore della tensione incognita, applicata al circuito costituito dal resistore e dall amperometro. Facciamo un esempio: supponiamo di avere a disposizione un amperometro con portata i max = 50 A e resistenza interna r = 100, e di volerlo trasformare in un voltmetro con portata V max = 2 V. La resistenza totale R v del voltmetro, somma della resistenza interna e di quella del resistore aggiuntivo R, deve essere tale che quando la tensione è V max, la corrente attraverso l amperometro sia i max, cioè R v = R + r = v max /i max = (2 V)/(50 A) = 2/ = E quindi la resistenza del resistore aggiuntivo deve essere R = = Si capisce che la portata di un voltmetro così fatto può essere aumentata a piacere utilizzando resistori aggiuntivi di resistenza opportunamente grande. Per misurare la tensione fra due punti di un E se sbagliamo i collegamenti? Collegare un circuito il voltmetro va disposto in parallelo, in modo amperometro in parallelo anziché in serie può che questa tensione sia applicata fra i suoi terminali. risultare catastrofico per lo strumento, Ma il collegamento del voltmetro, inevitabilmente, attraversato da una corrente tanto intensa da altera la tensione che si vuole misurare, perché il distruggerlo. Collegando invece un voltmetro in serie anziché in parallelo si ottiene funzionamento dello strumento richiede di assorbire semplicemente una misura totalmente sballata. una corrente. Questa corrente, e quindi l effetto di perturbazione e quindi l errore di misura, è tanto minore quanto maggiore è la resistenza R v del 18

19 voltmetro: al limite, se R v avesse valore infinito, la corrente attraverso il voltmetro si annullerebbe e la misura non verrebbe alterata. Ciò porta a concludere che un buon voltmetro deve possedere una alta resistenza interna Lo strumento universale Un tipo di strumento molto diffuso è lo strumento universale (tester), chiamato anche multimetro, che consente di eseguire misure di corrente (amperometro), di tensione (voltmetro), di resistenza (ohmetro) e altre ancora. Fornendo per ciascun tipo di misura la scelta fra più portate. Il cuore di questo strumento è un amperometro, indicato con A nello schema semplificato di figura 24, in parallelo al quale sono disposti dei derivatori per ottenere varie portate in corrente e in serie al quale sono disposti i resistori necessari per usarlo come voltmetro. La figura 24 bis mostra come lo strumento possa essere usato anche come ohmetro. Collegamento con la storia 1. Gli esperimenti di Ohm. Georg Simon Ohm nacque nel 1789 nella città di Erlangen, nei pressi di Norimberga, da una famiglia di modeste condizioni, studiò matematica e fisica e nel 1817 divenne professore in un liceo di Colonia diretto dai Gesuiti. E lì che scoprì le leggi che portano il suo nome, che poi pubblicò nel 1827 in un trattato dal titolo Die galvanische Kette, mathematisch bearbeitet (Il circuito galvanico studiato matematicamente). Ma per molti anni i suoi meriti non vennero riconosciuti. Fu chiamato a ricoprire la cattedra di fisica all università di Monaco solo poco tempo prima della morte, che avvenne nel Ohm fu uno scienziato idealista, dedito al progresso della scienza e poco attento agli onori. E facilissimo, oggi, ripetere gli esperimenti di Ohm, grazie alla strumentazione che abbiamo a disposizione, sicché le sue leggi ci appaiono quasi ovvie. Ma all epoca, cioè negli anni attorno al 1825, la situazione era veramente assai diversa. Come generatori, Ohm utilizzava delle pile di Volta, cambiando il numero di elementi connessi in serie per variare la tensione da applicare ai conduttori. Ma qui il problema era che non si conosceva l esistenza della resistenza interna sicché aumentando il numero di elementi la corrente nel conduttore collegato alle pile non aumentava in proporzione. Sappiamo infatti che, usando n elementi aventi tensione a vuoto V e resistenza interna R int, l intensità della corrente in un circuito di resistenza R è: i = nv/(nr int + R). Come indicatore dell intensità (che all epoca veniva chiamata grandezza ) della corrente, Ohm usava il progenitore degli attuali amperometri, il cosidetto galvanometro che era stato introdotto dopo il 1820 grazie agli esperimenti di Oersted ( Modulo 3, Unità 1), costituito da una bobina avvolta attorno a un ago magnetico Qui il problema riguardava la resistenza della bobina, cioè la resistenza interna r dello strumento, che non era per nulla trascurabile rispetto a quella del resto del circuito; e inoltre era diversa nei galvanometri che ogni sperimentatore si costruiva. Ciò rendeva difficile confrontare i risultati di Ohm con quelli degli altri scienziati, mentre sappiamo che la ripetibilità delle misure in laboratori differenti è essenziale perché i risultati vengano accettati dalla comunità scientifica. Per variare la resistenza R del conduttore, poi, Ohm usava fili metallici di diversa lunghezza L, cioè R = kl. Quindi l intensità della corrente nel circuito, tenendo conto di quanto detto prima, era: i = nv/(nr int + r + kl). Cioè non era inversamente proporzionale alla lunghezza L del conduttore, ossia alla sua resistenza. Nonostante le difficoltà, Ohm riuscì a stabilire le due leggi che portano il suo nome, per le quali aveva tratto ispirazione, come si è detto, dalla legge di Fourier sulla conduzione del calore. Ma queste conclusioni furono accettate universalmente, e i sui meriti riconosciuti, soltanto parecchi anni dopo, quando divenne più agevole ripetere i suoi esperimenti, ritrovando gli stessi risultati. Figura, immagine di Ohm da trovare, o disegno di antico galvanometro, con dida da fare. Figura 22. Le grandezze essenziali che caratterizzano gli amperometri sono due: la portata e la resistenza interna. In genere viene anche specificata l accuratezza delle misure: in percentuale del fondo scala per gli strumenti analogici, come incertezza sulla cifra meno significativa per quelli digitali. 19

20 (fotografia di un amperometro analogico) Figura 23. Per misurare la corrente che attraversa il resistore R, l amperometro A va disposto in serie a tale elemento. Per misurare la tensione agli estremi del resistore R, il voltmetro V va disposto in parallelo a tale elemento. Figura 24. Il tester è uno strumento assai diffuso, prodotto in una estesa varietà di tipi, alcuni anche di costo assai modesto (sicché può valere la pena di procurarselo, sia per svolgere esperimenti sia perché può essere utile in casa). a) Schema molto semplificato di un tester, dove d indica il terminale comune, c indica il terminale per l impiego come amperometro (con gli interruttori I che permettono di collegare i derivatori r per ottenere diverse portate in corrente), b e a indicano i terminali per l impiego come voltmetro, con i resistori R in serie all amperometro A. b) Un tipico tester digitale dispone di numerose portate per misure di corrente e di tensione (in continua e in alternata), per misure di resistenza, e altro ancora. (a) schizzo a destra, b) Foto di un tester digitale) Figura 24 bis. Per eseguire misure di resistenza elettrica, si inserisce una pila in serie all amperometro e i terminali dello strumento vengono collegati al resistore di cui si vuole determinare la resistenza R. Se R int è la resistenza interna dello strumento e V la tensione della pila, l intensità della corrente è: i = V/(R + R int ), da cui si ricava R L energia elettrica e l effetto Joule La corrente elettrica trasporta energia nella forma di energia potenziale elettrica delle cariche che la costituiscono. Questa energia viene acquistata quando le cariche attraversano il generatore, che ne innalza il potenziale, e viene ceduta quando esse attraversano il resto del circuito, man mano che il loro potenziale diminuisce. Più precisamente, il generatore fornisce l energia qv alla carica q che l attraversa. Essendo i = q/ t, nel tempo t esso fornisce l energia potenziale (energia elettrica): (12) U = iv t E quindi la potenza (potenza elettrica) trasportata dalla corrente è: (13) ` P = U/ t = iv Per farvi un idea della diversità dei valori delle potenze elettriche utilizzate correntemente, calcolate voi stessi la potenza nei due casi seguenti: a) un locomotore elettrico che assorbe 1000 A alla tensione di 3000 volt, b) un transistore usato come elemento di memoria nella RAM (memoria ad accesso casuale) di un calcolatore portatile, supponendo che la RAM contenga 10 milioni di transistori, sia alimentata a 3 V e assorba una corrente totale di 0,5 A. Attraversando i conduttori di un circuito, la corrente cede la sua energia, che nei diversi elementi viene trasformata in altre forme: energia termica, meccanica, magnetica, chimica, luminosa,... In questi processi, naturalmente, è sempre verificato il principio di conservazione dell energia, nel senso che la somma delle energie così ottenute è sempre uguale all energia ceduta dalla corrente. L energia e la potenza cedute da una corrente i attraversando un determinato conduttore sono espresse ancora dalle formule (12) e (13), dove però V sta a indicare la tensione ai capi del conduttore. Ma in qualsiasi conduttore, con la sola eccezione dei superconduttori, almeno una parte dell energia elettrica si trasforma in energia termica (effetto Joule). Questa conversione, anzi, è totale nei conduttori metallici, come stabilì il fisico inglese James Prescott Joule ( ) attraverso una serie di esperimenti svolti attorno al 1845, nel senso che tutta l energia elettrica che 20

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