CALCIO - LA STORIA DEL CALCIO

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1 CALCIO - LA STORIA DEL CALCIO Enciclopedia dello Sport di Adalberto Bortolotti, Gianni Leali, Mario Valitutti, Angelo Pesciaroli, Fino Fini, Marco Brunelli, Salvatore Lo Presti, Leonardo Vecchiet, Luca Gatteschi, Maria Grazia Rubenni, Franco Ordine, Ruggiero Palombo, Gigi Garanzini Aspetti economici di Marco Brunelli Il calcio, oltre a rappresentare senza dubbio uno straordinario fenomeno sociale, culturale e di costume nella maggior parte dei paesi del mondo, si è affermato anche come una realtà economica di enormi proporzioni in almeno tre continenti (Europa, Sud America e Asia), al punto che attualmente costituisce senza dubbio una delle poche 'industrie globali' del pianeta. All'inizio del 3 millennio, è giocato da 240 milioni di persone in 204 paesi. Non è certamente un caso che proprio una partita di calcio sia stato il programma televisivo più visto nel 2000 in 19 paesi europei su 23, oltre che in Argentina, Brasile, Cile e Perù. Il Campionato del Mondo giocato in Francia nel 1998 è stato trasmesso in 196 paesi del mondo (per ore), totalizzando nel complesso 33,4 miliardi di spettatori. La sola finale tra Francia e Brasile è stata vista da 1 miliardo di persone. In 153 nazioni si seguono in TV gli incontri del Campionato inglese. D'altra parte, nei principali 20 Campionati europei giocano calciatori di 102 paesi diversi. Dei quasi 16 miliardi di dollari che sono stati spesi nel 2000 per sponsorizzare lo sport nel mondo, più della metà sono andati al calcio, ai suoi club, eventi e campioni. Il diritto di trasmettere il Campionato nazionale costa ogni anno 2830 milioni di euro alle televisioni di Inghilterra, Italia, Spagna, Francia, Germania, Brasile, Grecia, Giappone, Olanda, Scozia, Portogallo, Belgio, Danimarca, Austria, Svizzera e Svezia. Questo dato è evidente prova del fatto che l'attuale dimensione economica del calcio è strettamente legata alla scoperta del suo valore mediatico e promozionale, scoperta di fatto piuttosto recente. In realtà, il calcio si è caratterizzato come un fenomeno economico sin dalle sue primissime origini, se è vero che già nel 1876, nove anni prima che la Football Association riconoscesse ufficialmente il professionismo, i club inglesi e scozzesi recintavano il terreno di gioco per far pagare un biglietto agli spettatori e corrispondevano salari, sotto forma di rimborsi, ai propri giocatori. Quasi altrettanto antica è l'abitudine di scambiarsi calciatori a cifre elevatissime: lire per Renzo De Vecchi nel 1913; per Virginio Rosetta nel 1925; lire più una FIAT 509 per Mumo Orsi nel 1929; per Valentino Mazzola nel 1942; 2 milioni per Silvio Piola nel Tuttavia, fino ai primi anni Ottanta, il giro d'affari del calcio mondiale è stato alimentato soprattutto dai consumi diretti dei suoi numerosissimi appassionati (biglietti e, in minor misura, scommesse) e dall'apporto diretto dei soci finanziatori, chiamati spesso a ripianare con mezzi propri bilanci in perdita. In ogni caso, niente a che vedere con le dimensioni attuali del business. Il gradimento del pubblico è stato evidente sin dall'inizio: tra il 1905 e il 1914 la finale di Coppa d'inghilterra ebbe una media di spettatori paganti (con la cifra record di nel 1913). Centomila persone assistettero sia alla finale della prima Coppa Rimet a Montevideo sia a quella delle Olimpiadi di Berlino nel In Inghilterra, nella stagione , le quattro divisioni professionistiche totalizzarono 41,3 milioni di presenze negli stadi. In paesi come l'inghilterra, l'italia e la Spagna il calcio ha storicamente alimentato la crescita dell'industria delle scommesse e dei concorsi pronostici. In Svezia i concorsi pronostici sul calcio esistono dal 1926, in Inghilterra le scommesse dal 1927, il Totocalcio svizzero nasce nel 1938, quelli spagnolo e italiano nel 1946.

2 Vi sono concorsi pronostici sul calcio in una trentina di paesi del mondo, quasi tutti in Europa e Sud America. In Italia, la crescita dei giochi è stata pressoché ininterrotta tra il 1970 e il 1997, quando le giocate lorde hanno raggiunto i 3831 miliardi di lire, per poi precipitare in una crisi che prosegue tuttora (1550 miliardi di lire raccolti complessivamente da Totocalcio, Totogol e Totosei nel 2000, oltre a circa 1200 miliardi di scommesse sportive). In oltre cinquant'anni di vita, i concorsi pronostici hanno assicurato al calcio italiano quasi 2500 miliardi di lire di entrate. Ciononostante, l'assenza di legami significativi tra lo sviluppo del calcio e quello di un settore produttivo specifico spiega perché, fino agli anni Sessanta, l'impatto di questo gioco sull'economia non sia stato neanche lontanamente paragonabile a quello di sport come il ciclismo o l'automobilismo, le cui grandi manifestazioni svolgevano una precisa funzione promozionale per le rispettive industrie. Anche le sponsorizzazioni sono arrivate, nel calcio, molto più tardi rispetto ad altri sport come il ciclismo, l'automobilismo, il basket o il tennis. La consacrazione moderna del calcio in quanto industria è, quindi, strettamente legata alla sua affermazione come straordinario veicolo di comunicazione per le aziende e come contenuto insostituibile per i media di concezione vecchia (radio, televisione) e nuova (Internet, UMTS). In entrambi i casi, decisivi sono stati gli eccezionali livelli di ascolto raggiunti. Non solo: nel calcio, tale audience è trasversale e fedele come in nessun'altra forma di spettacolo, cosa che costituisce un'opportunità irrinunciabile per inserzionisti pubblicitari e acquirenti di diritti televisivi. In Italia, nella stagione le entrate da diritti televisivi hanno superato per la prima volta quelle da vendita di biglietti, che attualmente rappresentano meno del 20% del totale. Nella stagione , emittenti e sponsor hanno garantito il 66% delle entrate complessive dei club inglesi di Premier League, e tale percentuale è aumentata ulteriormente, in maniera significativa, con l'entrata in vigore del nuovo contratto televisivo a partire dal Campionato In Francia, l'84% del fatturato delle società di prima divisione proviene da televisioni e partner commerciali, che rappresentano l'83% dei ricavi in Germania, l'81% in Giappone, il 69% in Portogallo, il 68% in Spagna e il 63% in Olanda. I soli diritti televisivi generano oltre il 60% del giro d'affari del Campionato nazionale brasiliano. Per un club come l'arsenal, il peso del botteghino è passato dal 93% del fatturato nel 1974 al 42% nel Nel caso della Roma, l'incidenza dei ricavi da gare è scesa dal 63% del valore della produzione nel 1988 al 21% nel In meno di vent'anni, il calcio è risultato decisivo per l'affermazione di alcune delle industrie più dinamiche della comunicazione e del tempo libero: sponsorizzazioni, pubblicità, merchandising, televisione commerciale e a pagamento, Internet. Questo, come è ovvio, si è tradotto in un notevole ritorno economico: se tra il 1946 e il 1988 il fatturato dei club inglesi era cresciuto del 3% all'anno, nel decennio successivo l'incremento medio è stato del 18%. Negli ultimi cinque anni del decennio scorso, il giro d'affari dei club è aumentato del 22% a stagione in Inghilterra, del 24% in Italia, del 28% in Spagna, del 15% in Germania e del 22% in Francia. Attualmente nei paesi dell'unione Europea, in Brasile e in Giappone il calcio di prima divisione fattura oltre 6400 milioni di euro, provenienti per il 40% dalla televisione, per il 24% dalla biglietteria e per il 36% da sponsorizzazioni e altre attività commerciali. Considerando anche l'indotto, il giro d'affari totale del calcio è di 5200 milioni di euro in Italia e di 3200 in Spagna. L'aumento delle entrate si è accompagnato, com'era inevitabile, a quello della remunerazione del principale fattore produttivo: i calciatori. Già nel 1913 un calciatore inglese (i professionisti erano 7000) guadagnava più del doppio di un impiegato. Nel 1929, tre anni dopo che la Carta di Viareggio, lo statuto emanato dal CONI contenente i punti fondamentali dell'ente calcio, aveva sancito la distinzione tra

3 dilettanti e non, Orsi guadagnava 8000 lire al mese (8 volte di più rispetto a un magistrato). Ma anche in questo caso, è solo dopo il 1960 che il fenomeno si espande e diventa generalizzato. Gli ingaggi dei calciatori inglesi di prima divisione sono aumentati del 61% tra il 1960 e il 1964 e triplicati tra il 1977 e il 1983, in coincidenza con l'abolizione del tetto salariale e del vincolo. Tra il 1992 e il 2000, gli anni del boom televisivo, la crescita è stata di oltre sei volte. Nel 1998 il calciatore medio della Premier League aveva uno stipendio superiore a quello del Governatore della Banca di Inghilterra e del Primo Ministro. In Italia, nel 1983, lo stipendio medio lordo annuo di un calciatore di serie A era di 130 milioni di lire, di 782 nel 1994 e di 2150 nel Le entrate dei club sono sempre più inadeguate a pagare gli ingaggi dei calciatori: nel 1984, in Italia, gli stipendi assorbivano il 34% dei ricavi, oggi, il 75%. In Inghilterra il 60% (il 38% negli anni Sessanta), in Scozia il 72%, in Germania il 46%, in Spagna il 55%, in Francia il 64%. Anche la campagna trasferimenti dei giocatori è andata crescendo di importanza con l'avvento dell'era televisiva. Da un lato, perché le maggiori risorse a disposizione dei club sono state investite nell'acquisto di nuovi calciatori: 105 milioni di lire per Jeppson nel 1950; più di un miliardo per Savoldi nel 1975; 13 miliardi nel 1984 per Maradona; 51 miliardi per Ronaldo nel 1997; 90 miliardi per Vieri nel 1999; 110 miliardi per Crespo nel 2000; 150 miliardi per Zidane nel Dall'altro, perché le società hanno fatto sempre più ricorso alle plusvalenze del calcio-mercato per attenuare i pesanti deficit operativi causati dall'aumento degli ingaggi dei calciatori e dei procuratori. Nella sola Europa, i trasferimenti alimentano un mercato da 6700 milioni di euro l'anno. Questo vorticoso giro di passaggi di calciatori da una società all'altra produce, come inevitabile conseguenza, l'aumento degli ammortamenti dei diritti pluriennali alle prestazioni dei calciatori iscritti all'attivo del bilancio dei club, che gravano in maniera sempre più pesante sui conti degli stessi. Addirittura, nel caso della serie A italiana, il costo totale dei giocatori, determinato dalla somma degli stipendi e delle quote di ammortamento, ha toccato nella stagione il 124% del valore della produzione, generando una perdita operativa totale (ovvero prima delle plusvalenze) di oltre 740 milioni di euro. Altrove, la difficoltà di produrre bilanci in utile si è tradotta nella crescita esponenziale dell'indebitamento delle società di calcio professionistiche: 931 milioni di euro per i 20 club della Liga spagnola al termine della stagione ; 290 milioni per le società di prima divisione francese nel ; 230 milioni per quelle del Campionato argentino. Attualmente, nei paesi dell'unione Europea, oltre un club su due registra una perdita prima dei trasferimenti dei giocatori: l'83% delle società in Scozia, il 77% in Portogallo, il 72% in Italia, il 71% in Svezia, il 61% in Francia. Per far fronte a una situazione tanto preoccupante, quasi tutte le Federazioni e le Leghe europee hanno varato negli ultimi anni, o si apprestano a farlo nel prossimo futuro, rigorose misure di controllo dei costi dei club: fissazione del numero massimo di giocatori che possono essere utilizzati da parte di una società; ammissione al Campionato condizionata al rispetto di determinati parametri di liquidità o solvibilità economico-finanziaria; imposizione di un salary cap ("tetto salariale"). In alternativa, i club stanno cercando di aumentare le proprie entrate, specie attraverso lo sviluppo in chiave 'globale' di alcuni aspetti del business calcistico che appaiono ancora marginali, o quantomeno riservati a un numero esiguo di club: lo sfruttamento commerciale degli stadi, la valorizzazione dei marchi dei club, la quotazione in Borsa, l'integrazione con aziende dell'entertainment. Tra il 1990 e il 2000 i club inglesi hanno investito 1070 milioni di sterline nel miglioramento degli stadi, che sono diventati per molte società fonti di reddito assai importanti. Il Manchester United, per esempio, ricava 30 milioni di euro dall'affitto alle aziende di palchi e altri posti di rappresentanza all'interno dell'old Trafford, oltre a 13 milioni di euro dalle attività di ristorazione e dall'affitto delle sale convegni presenti nello stadio, su un fatturato complessivo di 210 milioni ( ). Ancora più ampia è la diversificazione delle entrate del Chelsea, che si estende ben al di là della sola gestione polifunzionale dello stadio: la squadra di calcio produce 81 dei quasi 151 milioni di euro che costituiscono il giro d'affari complessivo del club; il resto proviene dall'attività di un'agenzia viaggi (42 milioni di euro), da servizi alberghieri e di ristorazione (19), dalla vendita di prodotti col marchio della

4 società (7,6), dalla gestione di parcheggi e attività editoriali (0,6), dall'amministrazione di proprietà immobiliari (0,2). Secondo una recente indagine della società FutureBrand, 15 club calcistici (4 inglesi, 3 italiani e brasiliani, 2 spagnoli, uno tedesco, scozzese e olandese) figurano tra i 40 marchi sportivi più importanti del mondo, in termini di notorietà, palmarès, seguito internazionale di tifosi e sfruttamento commerciale del proprio nome. Solo tre di questi, tuttavia, Manchester United, Real Madrid e Bayern Monaco, occupano uno dei primi 15 posti, a riprova di come, soprattutto per i club italiani, le potenzialità di valorizzazione del marchio a livello mondiale siano ancora largamente inesplorate, specie se paragonate a quelle di molti team professionistici americani. Per 23 club inglesi (il primo è stato il Tottenham nel 1983, seguito dal Manchester United nel 1992), 6 danesi, 4 scozzesi, 3 italiani, 2 portoghesi, uno olandese e uno tedesco la quotazione in Borsa ha rappresentato negli ultimi anni una valida alternativa all'autofinanziamento o all'indebitamento bancario, tradizionali fonti di approvvigionamento finanziario delle società di calcio. Nel 2001, la capitalizzazione complessiva dei club europei in Borsa è di 4360 miliardi di lire. Nel 2001, importanti aziende della comunicazione e dell'entertainment figuravano tra gli azionisti di club calcistici di Inghilterra, Italia, Francia, Germania, Grecia, Svizzera, Scozia, Brasile, Austria, Svezia e Repubblica Ceca. In qualche caso, tali imprese hanno visto nel calcio il veicolo decisivo per incrementare le proprie entrate tradizionali (abbonamenti televisivi e pubblicità), come BSkyB in Inghilterra, o per sviluppare congiuntamente con i club nuovi prodotti e servizi (canali tematici, portali Internet, servizi new media), come Granada e NTL sempre in Inghilterra. Altre aziende hanno puntato su squadre minori nella speranza di ottenere un ritorno futuro in caso di promozione nelle serie superiori, come Kinowelt in Germania. Altre ancora sono state spinte dal desiderio di diversificare le proprie attività, originariamente confinate nell'ambito dello sport marketing, come IMG e Octagon. In tutti i casi, le società calcistiche ne hanno tratto significativi vantaggi, in termini di apporto di capitali, competenze e possibili sinergie operative. La quotazione in Borsa, insieme all'integrazione dei club con aziende televisive o dell'entertainment, costituisce secondo molti osservatori una prova evidente del processo di trasformazione in atto delle società calcistiche in vere e proprie imprese. Il calcio-mercato di Franco Ordine "Il passaggio di un calciatore da una società all'altra è consentito per imprescindibili motivi di famiglia o di lavoro": datata 1911 e redatta in un italiano asciutto che non indulge a doppiezze né a equivoci, questa è la prima norma che introduce negli scarni regolamenti dell'epoca il complesso e spettacolare fenomeno poi passato sotto la definizione di calcio-mercato. È quindi possibile affermare che il mercato esiste sin dalle origini del calcio italiano. Le trattative, su cui si è sempre appuntato l'interesse delle cronache, un tempo si svolgevano in pochi giorni o settimane, avvenivano in un albergo e più avanti in complessi residenziali, mentre adesso risultano estese all'intero anno e si moltiplicano attraverso circuiti di moderna comunicazione, come Internet e telefoni cellulari. Varata la norma, fu subito trovato il modo di aggirarla, con opportune variazioni dei posti di lavoro. Tra i primi a far ricorso a simili escamotage, vi fu un esperto dirigente del Genoa, deciso a reclutare rinforzi per la propria squadra in modo di metterla al passo della Pro Vercelli, a quel tempo al vertice delle classifiche. Aristodemo Santamaria e Renzo De Vecchi erano i due calciatori oggetto delle mire genoane. Per il primo, mezzala dell'andrea Doria, bisognò sfidare l'ira dei tifosi doriani e i veleni di un'inchiesta nata dal sospetto di un compenso (300 lire) illecito; per il secondo, terzino del Milan ed esponente della nazionale, chiamato 'figlio di Dio' per la sua classe, si trovò un'occupazione a Genova quale fattorino presso un istituto bancario. Il risultato premiò gli sforzi dell'anonimo dirigente ligure: il Genoa vinse lo scudetto, De Vecchi incassò una

5 promozione a fattorino di direzione dal suo datore di lavoro e, quel che più conta, un premio speciale, 3 marenghi d'oro del valore di 100 lire ciascuno, dal club. Nel 1925 ad aggirare la norma fu la Juventus, decisa ad arruolare Virginio Rosetta, terzino anche della nazionale, impiegato a Vercelli come contabile presso le manifatture Lane, con uno stipendio di 1050 lire al mese. Il passaggio di Rosetta fu effettuato seguendo un percorso analogo a quello di De Vecchi: un trasferimento alla conceria Aimone-Marsan di Torino con l'identico stipendio e la promessa di un sostanzioso contributo spese, integrato da ricchi premi. L'affare si trasformò in un caso e finì con l'occupare le scarne cronache dei giornali, quando il reclamo di una squadra concorrente, il Genoa stavolta, segnalò il passaggio durante lo svolgimento della stagione in cui Rosetta stesso risultava tesserato della Pro Vercelli. Appena fu possibile con lo scudetto al Genoa e la Juventus penalizzata ristabilire l'ordine nel Campionato, Rosetta raggiunse Torino senza più proteste: in cambio la Pro Vercelli incassò ufficialmente il pagamento, tutt'altro che modesto, di lire. La cifra fu superata, sul finire degli anni Venti, dalle lire pretese dalla Lazio per cedere all'inter il suo centromediano Fulvio Bernardini, già ragioniere presso la Banca nazionale di Credito. Dopo l'istituzione del girone unico di serie A (1929), grazie alla quale il calcio, divenuto oggetto dell'interesse propagandistico del regime fascista, varcò i confini regionali, furono prese due decisioni di segno opposto, ambedue a opera del presidente della Federazione Leandro Arpinati. Da un lato si procedette alla chiusura delle frontiere, dall'altro si decise d'incrementare l'arrivo degli oriundi, giocatori provenienti da altre nazioni ma dalle scontate origini italiane. I controlli furono severi: Orsi, destinato alla Juventus, restò fermo per un anno, nonostante la spesa sopportata ( lire il contratto, 5000 lire mensili lo stipendio a lui riconosciuto). A inaugurare la serie degli oriundi fu l'argentino Julio Libonatti, idolo dei tifosi del Rosario, che fu scelto dal presidente del Torino, il conte Marone Cinzano, nel corso di uno dei suoi viaggi d'affari in Sud America. Nella sua scia giunsero successivamente Monti, Orsi e Guaita, che fecero addirittura parte della nazionale azzurra campione del Mondo nel Fu a quei tempi che cominciò ad affacciarsi alla ribalta internazionale una figura tipica del calcio-mercato: il faccendiere, chiamato a seconda dei periodi e delle occasioni sensale o mediatore, e poi consulente e infine procuratore, ma comunque caratterizzato dal fatto di riscuotere ricche percentuali sugli affari conclusi. I primi esponenti della categoria furono attivi lungo le rotte calcistiche che collegavano l'europa al Sud America, in particolare all'argentina e al Brasile: si trattava di avventurieri capaci di ricorrere a qualsiasi trucco, pur di dirottare un calciatore da una società all'altra. Avvenne, per esempio, che un argentino acquistato dalla Juventus, Sernagiotto, sbarcasse a Genova con in tasca il contratto per il Napoli, propostogli durante il viaggio da tale Schettini, in seguito smascherato. Una beffa ancora peggiore fu operata dall'ambrosiana ai danni della Juventus nel marzo del 1940, alla vigilia della Seconda guerra mondiale: il presidente dell'ambrosiana, Pozzani, dopo aver ricevuto da Roma una 'soffiata' sull'imminente entrata in guerra dell'italia, offrì al collega bianconero De Divonne tre forti giocatori, Locatelli, Olmi e Perucchetti, in cambio della considerevole cifra di lire; l'affare fu concluso rapidamente, ma fu reso inefficace dalla successiva sospensione del Campionato. Anche la politica ha esercitato la sua influenza sul calcio-mercato. Un caso tipico fu il colpo di mano che riguardò Silvio Piola: centravanti della Pro Vercelli, 51 gol in quattro Campionati, venne d'ufficio convocato in una caserma romana, sicché il suo trasferimento alla Lazio, preparato da un presidente in ottime relazioni con Mussolini, poté avvenire "per obblighi militari". A guerra finita, un episodio analogo accadde in Spagna, quando due società storicamente rivali, il Real Madrid e il Barcellona, si ritrovarono a disputarsi i servigi del fuoriclasse argentino Alfredo Di Stefano, allora venticinquenne, che era stato appena ceduto da un club considerato fuori legge dalla FIFA, i Millonarios di Bogotá al River Plate di Buenos Aires. I dirigenti di Madrid trattarono con i colombiani, i rappresentanti di Barcellona con gli argentini. Il braccio di ferro si risolse con una proposta ambigua della Federazione spagnola: Di Stefano avrebbe potuto giocare un anno a Madrid e uno a Barcellona. I catalani respinsero la mediazione e fu la fortuna del Real.

6 Due episodi ancora più clamorosi nella storia del calcio-mercato risalgono a tempi più recenti. Nel 1981, un attaccante slavo di discreta fama, Safet Susic, riuscì a firmare, nella stessa sezione di calcio-mercato, ben tre contratti: uno con l'inter di Fraizzoli, uno con il Torino di Sergio Rossi, uno con la Roma di Viola. Il presidente della Lega professionisti dell'epoca, Antonio Matarrese, ne decretò immediatamente l'espulsione. Nel 1995 Luis Figo, 23 anni, promettente portoghese dello Sporting di Lisbona, finì nelle mani di un procuratore senza scrupoli e vide svanire le intese sottoscritte prima con la Juventus e poi con il Parma. Non poté venire in Italia e si fermò a Barcellona, il che peraltro non gli ha danneggiato la carriera. Quando il calcio-mercato, da affare episodico riservato a pochi addetti, si trasformò in un fenomeno di costume, in un appuntamento atteso e seguito da giornali e tifosi, la rassegna ebbe la necessità di eleggere una città a sua sede stabile e di modificare abitudini e regolamenti per adeguarli alla statura dei personaggi nel frattempo saliti alla presidenza di molte società di calcio. Fra i nomi più illustri, oltre agli Agnelli, la cui supremazia nella Torino bianconera rimaneva indiscussa, basti ricordare i Rizzoli per il Milan, il petroliere Angelo Moratti per l'inter, il comandante Achille Lauro, sindaco di Napoli e patron della squadra, il conte Marini Dettina, presidente della Roma, Renato Dall'Ara, padrone del Bologna, Paolo Mazza, presidente della Spal salita in serie A. Nella loro scia, lungo i saloni dell'albergo Gallia, nei pressi della stazione Centrale di Milano (il calcio-mercato avrà qui la sua sede fino al 1976, quando sarà trasferito all'hotel Hilton, a 50 metri di distanza), nel mese di giugno una folla di curiosi poteva seguire da vicino le schermaglie e le trattative imbastite da dirigenti competenti, come Gipo Viani e Bruno Passalacqua del Milan, Italo Allodi dell'inter, e Andrea Arrica del Cagliari, oltre che da personaggi minori. Nasceva così la leggenda del calciomercato. Su invito di uno stravagante principe siciliano, Raimondo Lanza di Trabìa, i presidenti si incontravano per cena in un paio di ristoranti milanesi dalle parti di piazza Missori, e passavano poi la notte in albergo a discutere di gol e di rigori parati, di terzini e mediani da distribuire nelle varie squadre d'italia. Accanto ai resoconti veritieri, fiorivano gli aneddoti, i pettegolezzi e le cronache fantasiose, incentrate soprattutto sulle imprese di Lanza di Trabìa, proprietario terriero in Sicilia, presidente del Palermo ma residente a Roma, sposato con l'attrice Olga Villi. Quando morì suicida, a soli 39 anni, il principe lasciò in eredità alla moglie la proprietà del cartellino di Enrique Martegani, giocatore argentino passato dal Padova al Palermo e poi alla Lazio, abile nel palleggiare ma di scarso valore. L'episodio diede a Garinei e Giovannini lo spunto per un musical dal titolo La padrona di Raggio di luna. L'Italia intanto si avviava alla completa ricostruzione e sembrava anzi galvanizzata dal boom economico: mentre venivano riaperte le frontiere per i giocatori stranieri e i club si andavano trasformando in società per azioni senza scopo di lucro (riforma del presidente della Federazione, Giuseppe Pasquale), gli ingaggi diventarono milionari. A sfatare il tabù del milione, aveva provveduto, già nel 1942, Ferruccio Novo, presidente del Grande Torino, grazie all'assegno versato al Venezia per ottenere Loik e Valentino Mazzola, decisivi per completare la fortissima formazione granata. Nel 1950, nell'intento di strappare alla concorrenza della Roma lo svedese Hasse Jeppson, centravanti messosi in luce nell'atalanta, Lauro arrivò a versare la cifra record di 105 milioni. La firma dell'accordo tra l'armatore napoletano e il senatore Turani, presidente dell'atalanta, avvenne al termine di una cena in un ristorante napoletano. Il vincolo, cioè l'obbligo di rispettare la volontà della società, e spesso qualche suo capriccio, rendeva vulnerabile la figura del calciatore, mentre risultava decisivo il ruolo del dirigente. Agli inizi degli anni Cinquanta vennero introdotte, a questo proposito, due importanti innovazioni regolamentari: l'opzione, cioè la possibilità di prenotare in anticipo l'acquisto di un calciatore, e la comproprietà, cioè l'acquisto del 50% del cartellino, per la quale il tesserato veniva a trovarsi al servizio di due padroni. Negli anni Settanta i debiti delle società e le cifre spese per gli ingaggi crebbero a dismisura. Dopo la sconfitta della nazionale di Fabbri ai Mondiali inglesi del 1966, le frontiere erano state nuovamente chiuse e

7 tali sarebbero rimaste fino al 1980: restavano tesserabili solo gli oriundi, mentre le valutazioni dei pochi campioni italiani salivano alle stelle. A rendere meno complicate le trattative, ma più oneroso il loro costo, provvedevano i mediatori, chiamati 'mister 5%' per indicare l'ammontare richiesto per ciascun affare concluso. Tra i più famosi furono Walter Crociani e Romeo Anconetani, poi diventato presidente del Pisa. Il muro del miliardo fu sfiorato per la prima volta dalla Juventus, passata sotto la guida di Giampiero Boniperti, che nel 1974 acquistò dal Como per 950 milioni il terzino Marco Tardelli, per altro già promesso all'inter di Fraizzoli. Presto anche gli altri presidenti si adeguarono. Nel 1975 il costruttore napoletano Corrado Ferlaino, erede di Lauro, annunciò l'acquisto dal Bologna del centravanti Savoldi, per una cifra superiore al miliardo, che fece gridare allo scandalo. Nel 1984, riaperte le frontiere, lo stesso Ferlaino, grazie a un prestito del Banco di Napoli, avrebbe versato 13 miliardi al Barcellona per assicurarsi Maradona. Il calcio era ormai diventato una vera industria dello spettacolo, alla quale una serie di nuovi regolamenti tentava di dare una disciplina. Al vincolo fu sostituita la firma contestuale, voluta dall'avvocato Sergio Campana, battagliero presidente dell'associazione italiana calciatori (il sindacato di categoria fondato nel 1968), in virtù della quale senza il consenso del tesserato non si poteva procedere al suo trasferimento. Il primo a imporre la propria volontà fu Gigi Riva, mai uscito dalla Sardegna, nonostante gli affari conclusi una volta con la Juventus e un'altra con il Milan. In seguito, però, i giocatori si mostreranno meno determinati nei loro rifiuti, e pronti a cambiare idea e destinazione di fronte a offerte più remunerative. Per combattere in modo efficace la figura del mediatore, Campana nell'estate del 1978 presentò un esposto al pretore di Milano Costagliola, il quale dispose la perquisizione della sede del calcio-mercato. Negli stessi giorni Juventus e Vicenza si contendevano un promettente centravanti, Paolo Rossi. L'ebbe vinta il presidente del Vicenza, Giuseppe Farina, che pagò 2,6 miliardi per la comproprietà. Franco Carraro, allora presidente della Lega professionisti, si dimise per protesta. La possibilità di ingaggiare prima uno, poi due, quindi tre stranieri per squadra ha interamente modificato il calcio-mercato, dando vita a una sua nuova formulazione sulla quale hanno poi influito altri importanti fattori, primi fra tutti la quotazione in Borsa delle società (inaugurata dalla Lazio, seguita dalla Roma e dalla Juventus) e la cosiddetta 'sentenza Bosman'. Quest'ultima è stata emessa nel dicembre 1995 dall'alta Corte di Giustizia europea, dopo il ricorso di Jean-Marc Bosman, calciatore belga di modesta fama, e ha decretato la libertà di circolazione dei calciatori nell'ambito dell'unione Europea. Nel frattempo le società sono andate riconoscendo ai loro tesserati stipendi sempre più alti e contratti di durata sempre più lunga, e per gli ingaggi si sono susseguite sempre più vertiginose cifre-record: Zidane pagato 150 miliardi, Figo valutato 143 miliardi, Crespo acquistato per 110 miliardi. Infine, nel settembre 2001, l'ultima riforma, ottenuta dopo una mediazione tra Unione Europea e Federazione mondiale. Si tratta di una svolta epocale, in quanto consente al calciatore di rescindere un contratto in atto. Il giocatore è quindi libero di guadagnare sempre più, insieme con i suoi procuratori, diventati a tutti gli effetti i nuovi padroni del mercato. In Italia spiccano i nomi di figli d'arte, come Alessandro Moggi, figlio di Luciano, il potente direttore generale della Juventus, di qualche calciatore dal passato importante, come Oscar Damiani, o di manager di solida fama, come Giovanni Branchini, proveniente dalla boxe. Del Gallia non c'è più traccia nelle cronache, ma il calcio-mercato continua a occupare i titoli dei giornali e dei telegiornali. SITOGRAFIA:

focus 71.689 1.387.046 23,9% 7.657

focus 71.689 1.387.046 23,9% 7.657 focus 71.689 squadre Le squadre in attività nel 2010-2011 sono 71.689, delle quali 470 professionistiche, 17.020 dilettantistiche e 54.199 impegnate in attività di settore giovanile. Hanno disputato 704.496

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