Capitale umano e crescita
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- Gianmaria Renzo De Angelis
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1 Università Cattolica del Sacro Cuore - Facoltà di Economia, sede di Roma IL FUTURO NELL ECONOMIA Capitale umano e crescita Intervento del Governatore della Banca d Italia Ignazio Visco Roma, 30 gennaio 2015
2 Ringrazio il Rettore Anelli e il Professor Vaciago per avermi voluto invitare alle celebrazioni del 15 anno di attività della Facoltà di Economia presso la sede di Roma dell Università Cattolica. È un occasione particolare per il contesto in cui questa Facoltà è inserita: un campus caratterizzato dall eccellenza della Facoltà di medicina e del Policlinico Gemelli, un luogo dedicato innanzitutto alla salute e alla cura delle persone. Il termine capitale umano di cui da lungo tempo fanno uso gli economisti, in particolare gli economisti del lavoro è ormai entrato nel linguaggio comune, anche se è spesso abusato ed esprime un idea forse eccessivamente meccanicistica. Ci si sofferma soprattutto sull istruzione e sulla formazione, ma il concetto è ampio. Vi concorrono molte dimensioni dell individuo: non solo le capacità cognitive derivanti dal patrimonio di conoscenze, competenze e abilità tecniche, ma anche quelle non cognitive, come la motivazione o le attitudini verso il futuro e le condizioni di salute. Il capitale umano comprende tutto ciò che influenza la capacità degli individui di produrre e creare reddito, oltre alla forza delle loro braccia: la salute fisica e mentale ne è una determinante fondamentale. Non vi è quindi luogo più appropriato per tornare a parlarne 1. Le difficoltà del presente e i problemi del passato Oggi l economia italiana stenta a uscire dalla prolungata fase di crisi in atto da ormai sette anni, che ha causato una riduzione di circa 9 punti percentuali della nostra produzione annuale di beni e servizi. Particolarmente costose, in termini non solo economici ma anche sociali, sono state le conseguenze sull occupazione. Dal 2007 a oggi il tasso di disoccupazione, che ormai supera il 13 per cento della forza lavoro, è più che raddoppiato; i disoccupati hanno raggiunto i 3,5 milioni, con un aumento di quasi due milioni di unità. La disoccupazione giovanile è anch essa più che raddoppiata: su 100 giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni che hanno o ricercano un lavoro, oltre 40 non riescono a trovarlo. Queste cifre sintetizzano la severità dell impatto provocato dalla peggiore recessione sofferta dalla nostra economia dal dopoguerra. Tuttavia, i problemi che fronteggiamo non sono solo il risultato della crisi finanziaria del , aggravatasi con la crisi dei debiti sovrani che negli 1 Rinvio, per una trattazione più approfondita, a I. Visco, Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXI secolo, Bologna, Il Mulino,
3 ultimi anni ha colpito l area dell euro. Già prima di questi anni di crisi globale ed europea, quella italiana era un economia ferma, riflesso di un forte e diffuso indebolimento della capacità del nostro paese di crescere e competere. Il sintomo più evidente di questo indebolimento è la fiacca evoluzione di quella che gli economisti chiamano produttività totale dei fattori, una variabile che coglie la capacità delle imprese di innovare e organizzare in modo efficiente i fattori produttivi (quanto si riesce a produrre, cioè, in un dato orizzonte di tempo utilizzando al meglio le risorse fisiche e umane disponibili). Tra il 1996 e il 2007, il suo tasso di crescita medio annuo è stato meno di un terzo di quello dell area dell euro (0,2 rispetto a 0,7 per cento). Ciò si è riflesso in una crescita della produttività del lavoro pari a meno della metà di quella dell area dell euro (0,6 contro 1,3 per cento). Negli anni del miracolo economico e fino agli anni settanta del Novecento la produttività del lavoro cresceva a un ritmo di circa otto volte quello del decennio precedente gli ultimi anni di crisi. Questi andamenti riflettono una serie di nodi irrisolti che affliggono l Italia. I caratteri di debolezza strutturale della nostra economia sono antichi. Sono divenuti evidenti nell ultimo quarto di secolo, quando ci siamo trovati impreparati ad affrontare il contesto altamente competitivo originato dalla globalizzazione e a cogliere appieno le favorevoli occasioni offerte dalla crescente e rapida integrazione dei mercati mondiali, anziché subirne soprattutto i costi. Particolarmente grave è stato il ritardo con il quale ci si è andati adeguando agli eccezionali e continui progressi tecnologici, in primis, ma non solo, quelli delle nuove tecnologie dell informazione e delle comunicazioni. Per ritornare a una crescita economica stabile e sostenuta non basterà quindi uscire dall attuale difficile congiuntura, ma occorrerà abbattere gli ostacoli strutturali della nostra economia e società. Le analisi condotte in Banca d Italia ne hanno da tempo sottolineato molti: il difetto di concorrenza nel funzionamento dei mercati dei beni e dei servizi, la bassa efficienza della pubblica amministrazione, il peso insopportabile della criminalità e della corruzione. Tra questi, rientra tuttavia anche una preoccupante carenza nella dotazione di capitale umano. Abbiamo fatto enormi e indubbi progressi nella dimensione relativa alla salute. L Italia è uno dei paesi in cui la longevità della popolazione è aumentata più velocemente, fino a raggiungere livelli tra i più elevati al mondo. Molto lo si deve ai progressi della medicina e alla loro diffusione in tutti gli strati della popolazione, resa possibile da un servizio sanitario nazionale universale. Lo stesso progresso non ha però riguardato la dimensione del capitale umano relativa alla conoscenza e alle competenze. Lungo questa dimensione, il ritardo secolare del nostro paese rispetto ad altre economie avanzate è rimasto cospicuo e siamo oggi indietro anche rispetto a molte economie emergenti. Il patrimonio di conoscenze, competenze e abilità di cui le persone sono dotate - 3 -
4 si associa a più elevati livelli di crescita del reddito e di sviluppo economico e sociale. Esso contribuisce ad aumentare la produttività sia direttamente, accrescendo le capacità della forza lavoro, sia indirettamente, incentivando l adozione di tecnologie più avanzate e l innovazione. È su questo secondo tema che desidero ancora una volta soffermarmi, per la visibile rilevanza del progresso tecnologico nel mondo in cui viviamo, per i suoi potenziali effetti sul mercato del lavoro, per la necessità che la politica economica intervenga per coglierne i massimi benefici e contenerne le conseguenze negative. In parte trarrò spunto, in quanto segue, da un mio recente contributo, Perché i tempi stanno cambiando, presentato nell ultima Lettura del Mulino lo scorso ottobre 2. Progresso tecnologico, rivoluzione digitale e domanda di lavoro Il cambiamento tecnologico è stato il volano dello straordinario guadagno di benessere economico e sociale di cui ha beneficiato, negli ultimi tre secoli, gran parte dell umanità, pur se con modalità non lineari né indolori 3. In particolare, è stato di recente affermato che nessuna delle pur fondamentali innovazioni che hanno avuto luogo prima della metà del diciottesimo secolo ha avuto un importanza nello sviluppo socio-economico dell umanità paragonabile a quella dell eccezionale discontinuità che si è da allora osservata 4, una discontinuità che va di pari passo con la straordinaria crescita della popolazione mondiale, da meno di un miliardo agli oltre sette miliardi di oggi. Dai primi anni novanta del Novecento, un altra discontinuità sembra abbia iniziato a verificarsi, associata alla diffusione delle nuove tecnologie dell informazione e delle comunicazioni e in particolare alla rivoluzione digitale in atto. Nell opinione di economisti quali Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, essa riflette la peculiare natura del progresso tecnologico nell era nella quale oggi viviamo: il suo essere sì graduale, ma lungo una traiettoria esponenziale 5. Un esempio, essenziale per il ventaglio delle sue applicazioni in campi diversi, è la crescita, per l appunto esponenziale, della potenza di calcolo dei microprocessori, descrivibile con due semplici dati: il tipico smartphone di oggi ha una potenza 3 milioni di volte superiore a quella del primo mini computer commercializzato con successo nel 1965, a un costo 225 volte inferiore. 2 Cfr. per una sintesi, I. Visco, Perché i tempi stanno cambiando, il Mulino, LXIII, 476, Cfr. per una rassegna, M.A. Kose e E.O. Ozturk, A world of change, Finance & Development, settembre Cfr. I. Morris, Why the West rules for now: The patterns of history, and what they reveal about the future, New York, Farrar, Strauss and Giroux, E. Brynjolfsson e A. McAfee, The second machine age: Work, progress, and prosperity in a time of brilliant technologies, New York, W. W. Norton & Company,
5 Globalizzazione e progresso tecnologico hanno contribuito a migliorare le condizioni di vita delle persone, ma hanno anche modificato profondamente il funzionamento delle nostre economie e ridefinito la domanda di lavoro nei paesi avanzati. La prima ha indebolito le prospettive di reddito e impiego soprattutto dei lavoratori meno qualificati, sui quali è ricaduto l onere della maggiore pressione competitiva. Il secondo solleva la questione di quali siano le competenze richieste per sfruttare appieno le opportunità offerte dalle tecnologie digitali e cercare di governarne i rischi. La capacità di adattamento della forza lavoro è tanto più necessaria di fronte al recente aumento della disoccupazione nell area dell euro e in particolare in Italia: parte di tale incremento è di natura ciclica, dovuto alla recessione e al calo della domanda aggregata, ma un altra parte potrebbe essere di tipo strutturale, dovuta cioè a un disallineamento tra le competenze possedute dai lavoratori e quelle richieste dalle imprese e dai nuovi lavori, accentuatosi con l adozione e la diffusione delle nuove tecnologie. Data la velocità con cui i progressi tecnologici esercitano i propri effetti sulla domanda di lavoro, non possiamo escludere il rischio che una quota non piccola dei posti di lavoro persi durante la crisi non ritornerà ad essere disponibile, quantomeno nelle forme preesistenti, quando la ripresa si rafforzerà. La questione cruciale è stabilire se la perdita netta di posti di lavoro dovuta all innovazione tecnologica sia un fenomeno temporaneo o permanente. Non è una questione nuova, ma le possibili risposte oggi appaiono circondate da maggiore incertezza rispetto a quanto abbiamo osservato nel passato. Dalla seconda metà del Settecento, con la prima rivoluzione industriale si è affermata quella che alcuni economisti oggi chiamano la prima età delle macchine, per contrapporla alla seconda, l età nella quale, secondo Brynjolfsson e McAfee, staremmo oggi entrando 6. L introduzione di quelle che ora si definiscono tecnologie di uso generale il motore a vapore, il motore a scoppio, l elettrificazione e l innovazione e l automazione che ne sono seguite hanno progressivamente cambiato il mondo della produzione dei beni materiali, nell agricoltura come nell industria, in particolare quella manifatturiera. Dalla prima rivoluzione industriale, il progresso tecnico ha dimostrato la capacità di generare non solo diffusi aumenti del reddito e del tenore di vita pro capite ma anche ampie e migliori opportunità di occupazione. Alla perdita di posti di lavoro nei settori interessati dalle innovazioni di processo e di prodotto si è costantemente accompagnata una rapida creazione di nuova occupazione per il sistema economico nel suo complesso. Alla base di tale meccanismo sta la 6 Cfr. Brynjolfsson e McAfee, The second machine age, cit
6 capacità del progresso tecnico di avviare una sequenza virtuosa di incrementi di produttività, riduzione dei costi unitari di produzione, aumento della domanda per i nuovi beni e servizi e del reddito nazionale. Anche la rivoluzione digitale dei nostri giorni, che vediamo più chiaramente e quotidianamente nelle modalità per comunicare e acquisire informazioni, comporta benefici di ampia portata per l intera società. C è però un tratto che la distingue dalle rivoluzioni tecnologiche che l hanno preceduta: la velocità con cui tende a soppiantare il fattore lavoro, anche nei compiti in cui il contributo dell uomo era finora apparso insostituibile. Riprende così forza il timore di disoccupazione tecnologica di cui parlava Keynes nel 1930 nel suo celebre saggio sulle Prospettive economiche dei nostri nipoti 7. Il tema è oggi ancor più rilevante in quanto il progresso tecnico innescato dalla rivoluzione digitale potrebbe avere finora manifestato solo una piccola parte delle sue potenzialità e potrebbe essere ancora lontano dall avere pienamente dispiegato i suoi effetti sull occupazione e sulla produttività. Nella seconda età delle macchine di Brynjolfsson e McAfee, docenti al MIT, sempre più i computer e l automazione tendono a sostituirsi all intervento, non solo fisico, degli esseri umani. Se essi hanno ragione, la rivoluzione digitale non potrà non avere ripercussioni importanti, qualitative e quantitative, sull occupazione e sull organizzazione del lavoro nel futuro anche prossimo. Sebbene non sia questa la sede per discuterne, anche la sfida che ne conseguirà sul piano della distribuzione e ridistribuzione dei redditi sarà molto impegnativa 8. Polarizzazione delle professioni e rischio automazione Finora i nuovi strumenti informatici hanno rappresentato un complemento per le funzioni manageriali e intellettuali, tendendo a sostituire le funzioni più di routine, codificabili in procedure standardizzate. Hanno inciso assai meno sulle attività manuali non ripetitive, come quelle domestiche e di cura della persona. Negli Stati Uniti e in altri paesi, la dinamica delle professioni si è polarizzata verso i settori dei servizi a bassa retribuzione e, all estremo opposto, verso i lavori a elevati livelli d istruzione e remunerazione, a spese dei posti di lavoro con competenze di livello intermedio. 7 J.M. Keynes, Economic possibilities for our grandchildren, in Essays in persuasion, Londra, Macmillan, 1931 (trad. it. Prospettive economiche per i nostri nipoti, in Esortazioni e profezie, Milano, Il Saggiatore, 1968). Una ripresa del tema di Keynes (e delle conseguenza riguardo alla distribuzione dei redditi) era già contenuta nel saggio di J.E. Meade, Efficiency, equality and the ownership of property, Londra, George Allen & Unwin, Cfr. ancora Visco, Perché i tempi stanno cambiando, cit
7 La nuova ondata di innovazione tecnologica potrebbe oggi influire notevolmente anche sulla domanda di lavori non di routine e apparentemente non standardizzabili, a qualificazione sia bassa sia alta. Secondo stime recenti, negli Stati Uniti come nei principali paesi europei, inclusa l Italia (che sembra avere sofferto finora più dell impatto della globalizzazione, e del conseguente aumento della concorrenza dei mercati emergenti, che di quello dell innovazione tecnologica), uno su due degli attuali posti di lavoro sarebbe a rischio di essere automatizzato, possibilmente in uno o due decenni. Si tratta indubbiamente di stime che attirano l attenzione di chi legge, anche se vanno prese con cautela data l ovvia difficoltà di attribuire percentuali di rischio a lavori il cui contenuto può profondamente mutare anche grazie alla tecnologia. Già in passato abbiamo assistito a eccezionali mutamenti nella composizione dell occupazione; si pensi ad esempio alla straordinaria diminuzione di occupati in agricoltura nei paesi industrializzati occorsa dal dopoguerra a oggi. Alla perdita di determinati lavori anche questa volta corrisponderà certamente la nascita di nuovi, con un risultato netto non ancora definito e probabilmente diverso da paese a paese a seconda della qualità delle istituzioni e del funzionamento dei mercati. È l espansione dei settori innovativi a costituire però il principale motore della crescita dell occupazione e della produttività. In un saggio recente, Enrico Moretti, dell Università di Berkeley, mostra come a ogni lavoro high-tech creato in una data area metropolitana negli Stati Uniti si associno cinque nuovi posti di lavoro in settori tradizionali a basso contenuto di istruzione, attratti dall elevata domanda espressa dai nuovi lavori ad elevate competenze e remunerazioni 9. Ad esempio, la formazione di un hub innovativo intorno a Microsoft ha permesso la creazione a Seattle di nuova occupazione anche in settori non tecnologici: gli ingegneri e gli informatici che si erano trasferiti, essendo retribuiti ben oltre la media della popolazione, hanno generato domanda per nuovi beni e servizi, dai corsi di yoga ai ristoranti di sushi. Ciò fa ben sperare, ma non è scontato che avvenga. Alcune stime preliminari trovano per l Italia un moltiplicatore molto più basso, suggerendo una maggiore difficoltà a innescare tale circolo virtuoso. Questo potrebbe dipendere dal combinarsi di premi salariali ridotti per i lavori high-tech, elevati costi di entrata sul mercato per le nuove iniziative imprenditoriali e relativamente (o tradizionalmente) bassa mobilità geografica. In altri termini, gli stessi fattori, istituzionali e culturali, che rendono generalmente poco flessibile la nostra economia potrebbero frenarne la 9 E. Moretti, The new geography of jobs. Boston-New York, Houghton Mifflin Harcourt, 2012 (trad. it. La nuova geografia dei lavori, Milano, Mondadori, 2013)
8 capacità di disegnare e svilupparsi lungo nuove traiettorie. Anche qui c è uno spazio importante per la politica economica. Quali competenze per il XXI secolo? Le innovazioni tecnologiche si accompagnano inevitabilmente alla necessità di disporre di nuove professionalità. Alla forza lavoro sarà richiesto di andare oltre l applicazione di conoscenze standardizzate. Il capitale umano non potrà più coincidere (se mai lo è stato) semplicemente con il bagaglio conoscitivo delle persone e la produttività dei lavoratori non sarà più essenzialmente legata alle conoscenze tradizionali acquisite una volta per tutte sui banchi di scuola e applicate in modo standard nel corso della vita lavorativa. Assumerà importanza crescente ciò che gli educatori definiscono come competenza : la capacità, cioè, di mobilitare, in maniera integrata, risorse interne (saperi, saper fare, atteggiamenti) ed esterne, per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite e certamente non di routine. Bisognerà acquisire un nuovo pacchetto di competenze del XXI secolo : l esercizio del pensiero critico, l attitudine alla risoluzione dei problemi, la creatività e la disponibilità positiva nei confronti dell innovazione, la capacità di comunicare in modo efficace, l apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo. Non sono certo competenze nuove; è una novità, però, il ruolo decisivo che vanno assumendo nella moderna organizzazione del lavoro e, più in generale, quali determinanti della crescita economica. Non dovrebbero essere estranee a un paese come l Italia, che ha fatto di creatività, estro e abilità nel realizzare e inventare cose nuove la propria bandiera. In realtà, molti indicatori mostrano da tempo un ritardo del nostro paese nella dotazione qualitativa e quantitativa del capitale umano. I livelli di istruzione formale raggiunti sono ancora distanti da quelli di altre economie avanzate. Nel 2013 solo il 58 per cento della popolazione italiana nella fascia di età anni aveva concluso un ciclo di scuola secondaria superiore, contro il 77 per cento della media OCSE: il divario rimane, ancorché più contenuto, anche tra le coorti più giovani (73 contro 84 nella fascia di età anni). È ancora modesta la quota dei laureati (16 contro 33 per cento nella fascia di età anni). I risultati dell indagine PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), pubblicata dall OCSE nell autunno del 2013, evidenziano per l Italia un grado elevato di analfabetismo funzionale, ovvero una diffusa carenza di quelle competenze di lettura e comprensione, logiche e analitiche che rispondono alle moderne esigenze di vita e di lavoro. Il 70 per cento degli adulti italiani non è in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e - 8 -
9 articolati (siamo ultimi, a fronte di una media del 49 per cento tra i paesi partecipanti) e una quota analoga non è in grado di utilizzare ed elaborare adeguatamente informazioni matematiche (contro il 52 per cento nella media degli altri paesi). È limitata anche la diffusione di formazione sul posto di lavoro: secondo i dati della quarta rilevazione europea CVTS (Continuing Vocational Training Survey), nel 2010 solo il 56 per cento delle imprese italiane con almeno 10 addetti ha svolto attività di formazione professionale per i propri dipendenti. Nonostante il notevole miglioramento nel 2005 la corrispondente quota era pari al 32 per cento l Italia continua a collocarsi al di sotto della media europea (66 per cento). Il paradosso italiano Perché le famiglie e le imprese italiane investono in capitale umano meno che negli altri paesi? In Italia studiare conviene, ma meno che altrove. Secondo i dati dell Indagine sulle forze di lavoro dell Eurostat relativi al 2011, nella media dei paesi dell Unione europea lavorava l 86 per cento dei laureati tra i 25 e i 39 anni, contro il 77 per cento di coloro che avevano al massimo un diploma di istruzione secondaria superiore e il 60 per cento dei giovani in possesso di qualifiche di livello inferiore. Nella stessa fascia di età, per i laureati italiani la probabilità di essere occupati era pari a quella dei diplomati (73 per cento) e superiore di soli 13 punti percentuali a quella di chi aveva conseguito la licenza media. In termini di maggiori redditi, il rendimento della laurea per i lavoratori dipendenti italiani, rispetto a chi è in possesso del solo diploma e a parità di sesso ed età, si attestava a poco più del 30 per cento, un valore inferiore di oltre 15 punti percentuali a quello registrato negli altri maggiori paesi europei. Appare inoltre una peculiarità della situazione italiana: il rendimento è significativamente più basso per i più giovani, attestandosi all 11 per cento nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, contro il 35 degli altri paesi europei. Comparando costi e benefici monetari come si farebbe per un titolo finanziario, è stato stimato che il rendimento interno relativo dell acquisizione di istruzione universitaria è pari in Italia all 8 per cento, un valore inferiore di quasi 5 punti percentuali a quello registrato nella media dei paesi dell OCSE e di quasi 6 a quello raggiunto dagli altri paesi dell area dell euro. Per un economista tale divario appare come un paradosso: a una più bassa dotazione di capitale umano dovrebbe infatti corrispondere, ceteris paribus, un rendimento dello stesso più elevato, trattandosi di un fattore relativamente scarso. A fronte di un offerta limitata, l eccesso di domanda dovrebbe infatti innalzare le retribuzioni dei lavoratori qualificati. È questa una regolarità che si osserva per i - 9 -
10 paesi OCSE. In Italia, invece, a un basso livello di istruzione continua ad associarsi una remunerazione relativamente bassa. Questa situazione riflette un insieme di fattori, tra i quali le difficoltà del sistema scolastico italiano e alcune caratteristiche strutturali delle imprese, prima fra tutte la ridotta dimensione. Vi è però il rischio che il paradosso summenzionato segnali una perversa interazione tra la domanda e l offerta di capitale umano che ne amplifica le rispettive carenze. In presenza di significative difficoltà nel trovare competenze adeguate nel mercato del lavoro, le imprese sembrano aver reagito non innalzando i salari, bensì riducendo la propensione a investire in nuove tecnologie, contenendo di conseguenza il fabbisogno di manodopera qualificata. L innescarsi di questo circolo vizioso deprimerebbe ulteriormente l incentivo all investimento in capitale umano, spingendo inoltre i lavoratori altamente qualificati a emigrare, in cerca di migliori opportunità lavorative. Alcuni studi della Banca d Italia attribuiscono quasi metà del divario nella quota di laureati tra Italia e Germania a questo tipo di interazioni. Conclusioni La crisi rischia di lasciare un segno permanente nelle nostre economie, ben oltre il breve termine. Nel complesso dei paesi dell area dell euro il livello del prodotto è ancora inferiore a quello pre-crisi; si prevede che vi ritorni tra la fine di quest anno e l inizio del Anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito, paesi usciti più rapidamente dalla fase acuta della crisi, il tasso di crescita resta al di sotto di quello medio degli anni precedenti. Le difficoltà di accesso al mercato del lavoro, in particolare per i più giovani, così come l allungamento dei periodi di disoccupazione comportano rischi di depauperamento del capitale umano che in ultima battuta potrebbero indurre una riduzione del tasso di crescita del prodotto potenziale. Oggi, quindi, si dibatte sui rischi di isteresi (la misura in cui il ciclo economico influenza le dinamiche di più lungo termine) e di ristagno secolare, un ipotesi originariamente avanzata da Alvin Hansen negli anni trenta e riproposta di recente da Larry Summers 10. Di fronte a tali rischi e alle sfide imposte dall affermarsi delle nuove tecnologie e della rivoluzione digitale, resto convinto che investire in istruzione, capitale umano, conoscenza costituisca oggi un fattore prioritario, essenziale per la crescita economica, ma soprattutto per l occupazione e il benessere economico e sociale. 10 L.H. Summers, U.S. economic prospects: Secular stagnation, hysteresis and the zero lower bound, Business Economics, 49, 2, Cfr. anche P. Pagano e M. Sbracia, The secular stagnation hypothesis: A review of the debate and some insights, Questioni di economia e finanza, Banca d Italia, settembre
11 La rapidità e l imprevedibilità dei cambiamenti indotti dal progresso tecnologico, ai quali si aggiunge quello lento ma non meno importante del progressivo invecchiamento della popolazione, impongono di accrescere la velocità di risposta dell economia. Ciò riguarda l intero paese, le sue istituzioni, la sua forza lavoro, le sue imprese. Riforme che rilancino il sistema scolastico e universitario sono imprescindibili. Il tema è ovviamente complesso: l efficacia di un sistema di istruzione dipende dall interazione tra più fattori; alcuni di questi attengono all ammontare delle risorse destinate al sistema stesso, altri, spesso di difficile misurazione, all organizzazione complessiva della scuola e dell università che, a sua volta, si riflette anche su motivazioni e incentivi dei docenti. Pur se con dinamiche eterogenee tra i diversi cicli di studi, l Italia dedica complessivamente meno risorse all istruzione rispetto agli altri paesi industrializzati. Secondo i dati diffusi dall OCSE 11, nel 2011 il nostro paese spendeva (a parità di potere d acquisto) circa dollari per studente nell istruzione primaria, un valore superiore a quello medio dei paesi OCSE (8.300 dollari); nell istruzione secondaria, invece, la spesa italiana era inferiore al valore medio OCSE (8.600 contro dollari). La disparità è ancora più ampia nell istruzione terziaria: in Italia la spesa annua per studente universitario era inferiore di quasi il 30 per cento rispetto alla media dei paesi OCSE (circa contro dollari), certamente meno che in Francia e Germania ( e dollari) e molto meno che nei paesi che spendono di più quali Stati Uniti e Canada ( e dollari). Un analogo divario si registra per gli investimenti, pubblici e privati, in ricerca e sviluppo: nel 2012 il nostro paese ha speso l 1,3 per cento del PIL, a fronte del 2,4 della media OCSE (e della Francia), a sua volta inferiore alla spesa di paesi quali Stati Uniti (2,8 per cento), Germania (3,0 per cento), Israele (3,9 per cento) e Corea (4,4 per cento) 12. Lo scorso settembre il Governo ha proposto un piano di riforma del sistema scolastico, noto come La buona scuola. Esso mira opportunamente ad accrescere il peso della componente connessa con il merito nelle retribuzioni dei docenti, a garantire una maggiore flessibilità alle singole scuole, a potenziare i meccanismi di valutazione delle scuole per migliorare la capacità di rendere conto del proprio operato al mondo esterno. Nel segmento universitario, a una maggiore autonomia, accompagnata dall azione dell ANVUR negli ambiti dell abilitazione nazionale e della valutazione della ricerca, rafforzata 11 OECD, Education at a Glance 2014, Parigi. 12 OECD, Factbook 2014, Parigi
12 nella sua efficacia a mano a mano che si consolida (anche tenendo conto delle osservazioni costruttive formulate dai suoi critici), potrebbe corrispondere una maggiore competizione tra sedi, sul terreno delle immatricolazioni, del reclutamento dei docenti e della differenziazione dell offerta formativa che andrebbe allineata alle reali competenze richieste dal sistema produttivo. I meccanismi che regolano il funzionamento del mercato del lavoro vanno adeguati al nuovo contesto tecnologico e competitivo. Con le più recenti riforme, quella del 2012 e quella in fieri delineata nel Jobs Act, l Italia ha mosso passi importanti nella giusta direzione. Tre punti sono particolarmente importanti: la riduzione della segmentazione tra diverse categorie di lavoratori, l aumento della flessibilità in entrata e in uscita, accompagnato da un ampliamento delle misure a sostegno dei lavoratori disoccupati; la revisione, ancora da completare, delle politiche attive. Ne possono derivare benefici in termini di una più efficiente allocazione della forza lavoro verso i settori e le imprese più produttive, e di maggiori incentivi, sia dei lavoratori sia degli imprenditori, a investire sull adeguamento continuo delle competenze e delle conoscenze. Il ruolo delle imprese e degli imprenditori è quanto mai importante in questa fase. Lo è poiché ad essi spetta di investire in attività di ricerca, sviluppo e innovazione, assumendosene i rischi impliciti, di puntare sull internazionalizzazione, attraverso la partecipazione attiva alle filiere produttive globali e la presenza sui mercati esteri maggiormente dinamici. Ma c è di più. La qualità del lavoro, la capacità di trattenere e attrarre i nostri migliori cervelli, la produttività del singolo lavoratore e della tecnologia adottata richiedono modelli organizzativi moderni in cui il lavoratore è maggiormente partecipe degli obiettivi e delle strategie aziendali, opera con più autonomia e responsabilità operative, riesce a meglio bilanciare le esigenze lavorative con quelle personali 13. Questo può accompagnare e favorire incrementi dell efficienza aziendale. Si tratta di un tema ampio e complesso che non può essere sviluppato in questa sede. Tuttavia, anche su questo fronte il nostro sistema produttivo, popolato da un numero eccessivo di imprese di dimensione ridotta e spesso rinchiuse nel perimetro della famiglia proprietaria, denuncia purtroppo importanti ritardi. È evidente, per concludere, che i benefici dell investimento in capitale umano non si esauriscono con quelli di natura materiale. Come ho detto altre volte, investire in conoscenza è importante anche oltre l economia, contribuisce all innalzamento del senso civico e del capitale sociale, valori in sé, indipendentemente dai loro effetti positivi sulla crescita economica, e fattori importanti di coesione sociale e di benessere dei cittadini. 13 Cfr. anche la recente pubblicazione della Commissione europea Employment and Social Developments in Europe
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