Nord e Sud a 150 anni dall Unità d Italia SESSIONI DI STUDIO

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1 Versione provvisoria Nord e Sud a 150 anni dall Unità d Italia SESSIONI DI STUDIO Sessione I Unificazione economica (andamenti dell economia e politiche per il Sud) Relazione SVIMEZ (L.Bianchi, D.Miotti, R.Padovani, G.Pellegrini, G.Provenzano) 150 anni di crescita, 150 anni di divari: sviluppo, trasformazioni, politiche Camera dei Deputati, Palazzo Marini 30 maggio 2011

2 1. Lo sviluppo del Mezzogiorno: 150 anni di divari, 150 anni di crescita A centocinquant anni dalla sua Unificazione, l Italia rimane ancora divisa nelle sue caratteristiche socio-economiche: lo sviluppo è polarizzato nelle regioni centro-settentrionali, industrialmente avanzate e parte del core produttivo dell Europa, mentre quelle meridionali rimangono economicamente periferiche e in ritardo di sviluppo. La persistenza di una grande questione di divario territoriale rappresenta una condizione della vita economica e sociale dell Italia ma anche un intricato problema di mancato sviluppo del Paese e dell intera Europa. Al 2009 nessuna delle regioni del Mezzogiorno raggiungeva il PIL pro capite medio nazionale; al contrario, tutte le restanti regioni, esclusa l Umbria, lo superavano. La regione più sviluppata del Mezzogiorno (l Abruzzo) rimaneva ben al di sotto di quella meno sviluppata del resto d Italia (l Umbria). Nel complesso, il prodotto pro capite del Mezzogiorno risultava pari solo al 59% di quello del Centro- Nord. Molte delle ragioni del ritardo meridionale erano già presenti al momento dell Unificazione. Lo stesso Cavour avverte che armonizzare il Mezzogiorno con il Settentrione d Italia è impresa più difficile che avere a che fare con l Austria e la Chiesa (Ciocca, 2007). La questione meridionale, così come è stata indicata in seguito, ha attraversato non solo la storia del Paese, ma ne ha segnato il passo economico e sociale. La presenza di un divario di ricchezza fra le due aree è non è una caratteristica immutabile della storia italiana: recenti ricostruzioni storiche (Daniele e Malanima, 2007) segnalano che al momento dell Unità d Italia il prodotto pro capite delle due aree era pressoché simile. Questo non significa che non vi fossero forti squilibri regionali, tutt altro. Ma le differenziazioni interne alle due aree risultavano di gran lunga più importanti di quelle tra le due macroregioni. Al Nord, la regione più ricca era la Liguria, con un PIL pro capite maggiore del 19% della media italiana, seguita dall Umbria (16% in più), mentre il Veneto era quella più povera (85% della media nazionale). Nel Mezzogiorno la regione più ricca era la Campania, con il 10% in più della media nazionale, mentre la più povera era la Calabria (solo il 72%). Nei 150 anni successivi i processi di convergenza non sono stati omogenei nelle due aree: mentre nel Centro-Nord le regioni più povere sono cresciute più della media nazionale, avvicinandosi quindi alle aree ricche dell area, nel Mezzogiorno le regioni relativamente più ricche sono cresciute meno della media, retrocedendo nello sviluppo e quindi influenzando negativamente i risultati dell area. Quello che era una normale eterogeneità territoriale dello sviluppo si è trasformata nella questione meridionale, ovvero nella presenza più importante in Europa di una struttura territoriale dualistica. Le conseguenze, in termini di analisi e di policy, sono state rilevanti: all interno di un mercato unico, i fenomeni di attrattività, concentrazione e 2

3 spiazzamento dei flussi di fattori produttivi in favore dell area più sviluppata ostacolano i processi di crescita dell area debole. Le interdipendenze fra le aree quindi rendono maggiormente indeterminati gli effetti delle politiche, e indeboliscono le dinamiche di convergenza economica, sebbene possano rafforzare quelle di convergenza nei livelli di benessere sociale. In questo lavoro si vuole mettere in luce come i divari di prodotto tra Nord e Sud siano un risultato relativamente recente nella storia, presentatosi negli ultimi 150 anni, a causa di diverse traiettorie di produttività e occupazionali fra regioni. I dati a nostra disposizione non consentono, d altronde, di approfondire le cause di tali difformità. Solo dagli anni 50 le informazioni disponibili permettono di segnalare alcuni elementi di analisi, relativi principalmente ai processi di accumulazione e di dipendenza tra le due aree che possono avere influenzato significativamente il divario. 1.1 I periodi della convergenza e della divergenza Esiste un dibattito ancora vivace su quale fosse la posizione relativa in termini di reddito delle regioni meridionali al momento dell Unità d Italia. Ad esempio Saraceno (1961) sottolineava come esistessero differenze profonde tra gli Stati del Centro-Nord e il Regno delle Due Sicilie, principalmente per quanto riguardava l agricoltura, che era al tempo la principale fonte di reddito. Nel complesso si stimava che il divario a sfavore del Sud potesse quantificarsi all epoca tra il 10 e il 20 per cento (Daniele e Malanima, 2007). Stime recenti hanno però ridimensionato la distanza tra Nord e Mezzogiorno: Federico (2007) mostra come all epoca la produttività agricola del lavoro fosse in effetti maggiore al Sud. Fenoaltea (2003) stima che nel settore industriale i divari in termini di produttività pro capite fossero intorno al 15 per cento. L accostamento delle serie annuali del prodotto pro capite stimate da Daniele e Malanima (2007) per il periodo con quelle più recenti, dal 1951, prodotte dalla Svimez, permette di individuare un quadro complessivo degli andamenti del divario fra le due aree dal momento dell Unità ad oggi (Fig. 1). 3

4 Fig. 1. Il divario nei 150 anni di storia d'italia. Andamento del PIL pro capite del Mezzogiorno in percentuale del Centro-Nord (a) (a) Per il periodo : stima V. Daniele P. Malanima valori costanti, per il periodo : stime SVIMEZ valori correnti Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati V.Daniele, P.Malanima per il periodo e SVIMEZ per il periodo L importanza della presenza di un divario al momento dell Unità appare però più connessa al lavoro degli storici che agli effetti per lo sviluppo successivo. Fenoaltea argomenta, ad esempio, come l esistenza o meno di un divario pre-industrializzazione sia sostanzialmente irrilevante, sia perché la mobilità di capitale e lavoro avrebbe potuto permettere facilmente l adeguamento dei fattori produttivi allo sviluppo tecnologico delle diverse aree (ovvero l isteresi nello sviluppo rimane comunque ridotta), sia perché, nei fatti, gli incrementi di produttività determinati sono stati di tale entità che avrebbero potuto colmare qualsiasi divario. Un esempio è l industria del cotone, il cui prodotto in 50 anni aumenta di oltre dieci volte. Sicuramente determinante è risultata essere invece la diversa dinamica dell industrializzazione nelle due aree. La Fig. 2 mostra come il processo di industrializzazione si sia originato nella prima parte del 900, e soprattutto dopo la Grande guerra, nelle regioni del Centro-Nord (in particolare Liguria e nelle zone prealpine). La diffusione dell industria (comprensiva del comparto manifatturiero e di quello edile) al Sud è avvenuta con più lentezza, segnando in tal modo il differenziale complessivo di produttività e quindi di reddito con il resto del Paese. 4

5 Fig. 2 Popolazione attiva nell'industria tra il 1861 e il 2001 (quota %) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT L osservazione dell evoluzione dei dati regionali, sulla base di quanto presentato da Daniele e Malanima dal 1891 al 1951 a prezzi costanti 1911, e poi sulla ricostruzione Svimez dal 1951 fino al 2009 a prezzi correnti, permette di identificare alcuni periodi fondamentali relativi all evoluzione del divario tra Centro-Nord e Sud (Figg. 3). Il periodo dopo l Unità appare contraddistinto dalle prime difficoltà per le regioni meridionali nel tenere il passo con il resto del Paese. Nel 1891 il prodotto pro capite era nel Mezzogiorno circa il 7% inferiore a quello del resto del Paese. La posizione relativa delle varie regioni non evidenziava una distinzione netta fra le due aree: ad esempio, il PIL pro capite della Campania risultava superiore a quello medio, quello di Veneto e Marche inferiore. 5

6 Fig. 3a Dinamica relativa del prodotto pro capite a prezzi 1911 nelle regioni del Nord (Italia=1) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati V.Daniele, P.Malanima Fig. 3b. Dinamica relativa del prodotto pro capite a prezzi 1911 nelle regioni del Centro (Italia=1) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati V.Daniele, P.Malanima 6

7 Fig. 3c. Dinamica relativa del prodotto pro capite a prezzi 1911 nelle regioni del Mezzogiorno (Italia=1) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati V.Daniele, P.Malanima 7

8 Fig. 3d. Dinamica relativa del prodotto pro capite a prezzi correnti nelle regioni del Nord, dal 1951 al (Italia=1) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ 8

9 Fig. 3e. Dinamica relativa del prodotto pro capite a prezzi correnti nelle regioni del Centro (Italia=1) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ Fig. 3f. Dinamica relativa del prodotto pro capite a prezzi correnti nelle regioni del Mezzogiorno dal 1951 al 2009 (Italia =1) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ 9

10 Dalla fine dell 800 inizia un chiara divergenza di passo di tutte le regioni meridionali dal resto del Paese (Figg. 3). Tale processo, continuo e prolungato, dura fino al secondo dopoguerra, e riguarda sia le aree più ricche (come Campania e Puglia), sia quelle più povere (come Calabria e Abruzzi). In una prima fase ( ) le differenze si ampliano, principalmente per effetto della crescita delle regioni del triangolo industriale (Lombardia, Piemonte e soprattutto Liguria), mentre le altre regioni tendono a conservare (o a diminuire di poco, nel caso del Mezzogiorno) le proprie posizioni relative. Nel complesso, come segnalano Daniele e Malanima, il Sud cresce dell 1,1 per cento all anno, 0,7 punti in meno annui del resto del Paese, portando il divario complessivo di prodotto pro capite a circa l 80 per cento del resto del Paese. Questo è legato sia al processo di industrializzazione, che si diffonde in alcune aree del Nord-Ovest, sia agli effetti delle politiche generali, in particolare della politica tariffaria e del dazio sul grano, che innalza il valore della terra, sostiene la proprietà latifondista, specie al Sud dove era diffusa, e in ultima analisi riduce il potere di acquisto dei salari, sospingendo parte della popolazione contadina a cercare fortuna altrove. La spiegazione della concentrazione geografica dello sviluppo industriale è stata imputata alla presenza di vantaggi comparati territorialmente specifici, quali la disponibilità di risorse naturali, la topografia, e un sistema sociale complessivamente più adatto al nuovo sistema di produzione richiesto dall industria, che hanno fatto sì che nel triangolo industriale localizzato nel Nord-Ovest si venissero a impiantare le prime imprese. Tali vantaggi si sono poi progressivamente ampliati attraverso meccanismi di causazione circolare e cumulativa ben descritti in Krugman (1995), fenomeno usuale in quasi tutti i processi di sviluppo economico. Nella seconda fase ( ), che comprende il ventennio fascista, i divari accelerano. Meritano risalto i movimenti comuni delle regioni del Nord tutti orientati alla crescita, insieme a Toscana e Lazio, anche se con diversi ritmi, e soprattutto quelli delle regioni del Mezzogiorno, con Umbria e Marche, che invece perdono tutte, in modo anche rilevante, rispetto al resto del Paese. E evidente dai dati il decollo in alcuni momenti esplosivo della Liguria, seguita da Lombardia e Piemonte. D altra parte, si arriva a determinare in questa fase una questione meridionale : tutte le regioni del Sud presentano livelli del PIL pro capite inferiori alla media nazionale. In particolare la Campania, prima sopra alla media nazionale, si trova alla fine del periodo con un PIL pro capite pari all 80 % del resto del Paese. Al contrario, il Veneto sfiora (e poi raggiunge alla fine della Guerra) la media nazionale. La volontà di fare dell Italia una grande potenza mondiale, che è generata nell autarchia, non ha giovato ai processi di convergenza e diffusione dell industrializzazione, anche a causa degli interventi volti a salvare parti dell esistente 10

11 patrimonio industriale (nascita IRI), localizzati principalmente al Nord. Inoltre l attenzione dedicata dal regime al settore agricolo e ad opere di infrastrutturazione in questo campo non hanno però impedito che la rendita fondiaria, già rafforzata dai dazi sul grano e dall apprezzamento della valuta, rimanesse un ostacolo formidabile allo sviluppo di una moderna agricoltura, e quindi al possibile avvio di una industrializzazione diffusa. L autarchia interruppe anche la valvola di sfogo delle migrazioni esterne: la popolazione al Sud passa dal 54% di quella del Centro-Nord del 1920 al 58% nel 1944, con effetti ovviamente depressivi sul PIL pro capite. Nel periodo bellico le differenze si acuiscono, sempre a svantaggio del Mezzogiorno. I danni di guerra sono maggiori nelle regioni meridionali. Un indagine del settembre 1944, svolta tra le provincie sotto l amministrazione alleata, che comprendevano il Mezzogiorno più Lazio e Umbria, segnalava che i danni totali raggiungevano il 34,7% del valore degli stabilimenti nel 1939, ma nel solo Mezzogiorno il valore raggiungeva il 35,4% (Padovani, 1980). Le regioni più colpite risultavano la Campania (59,9%) e Abruzzo (50,6%). Alla fine della guerra il divario fra le due aree è ai livelli massimi: il prodotto delle regioni meridionali è in media poco più della metà di quello del resto del Paese. La fase che va dal dopoguerra fino allo shock petrolifero, contraddistinta da una forte crescita dell intero Paese, è il principale periodo di convergenza: le regioni del Mezzogiorno si riavvicinano tutte ai livelli medi nazionali, mentre la minore crescita delle regioni del triangolo industriale, in particolare nei confronti di quelle della terza Italia, riduce i divari regionali anche all interno del Centro-Nord. Dopo una fase di pre-industrializzazione, è dalla fine degli anni 50 che la convergenza accelera. Questo riguarda tutte le regioni del Mezzogiorno, escludendo solo la Sardegna, che mostra una dinamica più altalenante. Nel 1971 il divario in termini di PIL pro capite è pari circa al 61,3%. Questo processo è trainato soprattutto da una dinamica più forte della produttività per addetto, frutto anche delle trasformazioni strutturali dell economia. Dal 1970 i processi di convergenza appaiono arrestarsi: l economia del Mezzogiorno chiude bruscamente la fase di riavvicinamento alle aree più ricche. Il gap si riallarga, tornando non distante dai valori del primo dopoguerra, sebbene nei primi anni del nuovo secolo vi siano deboli segnali positivi di convergenza. Nel 2009 il PIL pro capite del Mezzogiorno è al 59% del Centro-Nord. Il distacco progressivo che il Mezzogiorno registra con il resto del Paese nel corso della prima parte dello scorso secolo è simile a quello avvertito con il resto dei principali paesi europei (Fig. 4a). Per meglio dire, al processo di industrializzazione e costruzione delle infrastrutture in Europa partecipa il Centro-Nord, non il Mezzogiorno. La principale differenza che si osserva con la crescita dei principali paesi europei riguarda gli effetti della prima guerra mondiale, che toccano solo marginalmente il Mezzogiorno, mentre portano a una riduzione severa del prodotto pro capite 11

12 in particolare in Francia e Germania, fino a riportare i divari a quelli registrati alla fine dell ottocento. Gli anni a cavallo delle due guerre registrano un allargamento dei divari tra il Mezzogiorno e il resto dei paesi europei considerati, mentre le regioni del Centro-Nord partecipano alla crescita europea, sebbene con tassi inferiori. Lo sviluppo registrato nel secondo dopoguerra fino agli anni settanta, e il rallentamento della crescita negli anni successivi sono tratti comuni al Mezzogiorno e gli altri paesi europei (Fig. 4b). Il Mezzogiorno, d altronde, sperimenta una dinamica inferiore, che nel tempo lo allontana progressivamente dai livelli di benessere raggiunti nel core dell Europa. Fig. 4a Andamenti del reddito pro capite nel Mezzogiorno, Centro-Nord e alcuni grandi paesi europei dal 1861 al 1951 ( dollari 1990 International Geary-Khamis, da Maddison) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati Maddison, V. Daniele e P. Malanima 12

13 Fig. 4b. Andamenti del reddito pro capite nel Mezzogiorno, Centro-Nord e alcuni grandi paesi europei dal 1951 al 2008 (dollari Internazional 1990 Geary-Khamis, da Maddison) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati Maddison e SVIMEZ 1.2 Le condizioni dello sviluppo Identificare i fattori alla base dei divari di reddito regionale è molto complesso, come testimonia la cospicua letteratura volta a scoprire le cause del ritardo di sviluppo nelle regioni meridionali. Essendo il reddito pro capite scomponibile tra produttività del lavoro e tasso di occupazione (espresso come rapporto tra occupati e popolazione), una prima analisi del divario può individuare il contributo di entrambe le componenti nella spiegazione della sua dinamica. Un tentativo in tal senso è presentato nel lavoro di Daniele e Malanima (2007), integrato dai dati costruiti dalla Svimez dopo il Il periodo viene scomposto in quattro sottoperiodi, che rappresentano, in linea di massima, le fasi di crescita del Paese individuate precedentemente: la prima industrializzazione, il periodo fascista, gli anni del boom economico fino alle crisi petrolifere e del tasso di cambio, l ultimo trentennio di bassa crescita. Tale analisi è sintetizzata nella Fig. 5. All inizio del periodo il gap in termini di prodotto pro capite era pari a 7 punti percentuali, ovvero il prodotto del Mezzogiorno risultava essere il 93% di quello del Centro-Nord. Nel 2009 il divario a prezzi correnti ammontava a ben 41 punti percentuali. L analisi mostra come l aumento del divario sia attribuibile sia a una minore dinamica della produttività del lavoro nelle regioni del 13

14 Mezzogiorno, sia ad un andamento relativamente inferiore del tasso di occupazione. Entrambe le componenti hanno svolto un ruolo importante, sebbene vi siano, difformità notevoli tra sottoperiodi. In particolare, nella prima metà del novecento la componente principale che domina la crescita del divario è data dalla produttività. Questo avviene nel primo periodo ( ), nel quale l Italia del Nord realizza la sua prima industrializzazione: nel complesso, dei 13 punti di crescita del divario, 7 sono imputabili al minore andamento della produttività nel Sud. A questo si affianca la diversa dinamica fra aree dell occupazione, anch essa trainata dall impiego di uomini e donne nelle prime fabbriche ma anche dall emigrazione di persone in cerca di lavoro specialmente dalle regioni del Mezzogiorno. Nel periodo tra le due guerre ( ) tale flusso si interrompe, e questo, assieme alla ridotta diffusione dell industrializzazione al Sud, spiega il ruolo più elevato che assume nel periodo la componente di produttività. Dei 12 punti di maggior divario, 9 sono attribuibili alla componente di produttività. Nel dopoguerra il gap si riduce di quasi 8 punti percentuali: il PIL pro capite del Mezzogiorno era poco meno del 53% di quello del Centro-Nord nel 1951, diventa il 60% nel 1973, all epoca del primo shock petrolifero. Anche in questo caso la produttività gioca il ruolo principale, ma invertito rispetto al passato: cresce più nel Mezzogiorno che nel resto del Paese, con un effetto di riduzione di 8 punti del divario, in virtù prevalentemente della diffusione dell industrializzazione e dell ammodernamento dell apparato produttivo al Sud. Tale dinamica compensa il passo lento, relativamente al Centro-Nord, del tasso di occupazione. Questo processo di convergenza si attenua per poi scomparire nel periodo successivo. Il gap rimane pressoché costante, in quanto tutto il recupero di produttività viene riassorbito dalla peggiore dinamica dell occupazione nelle regioni meridionali. 14

15 Fig. 5 Scomposizione del divario espresso dal PIL pro capite: produttività e tasso di occupazione (in %) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati V. Daniele e P. Malanima peril periodo e SVIMEZ per il periodo Che l ampliarsi del divario, dato il ruolo della diversa dinamica della produttività del lavoro nelle due aree, sia in qualche modo legato ai processi di industrializzazione risulta chiaro anche nei numeri. Il lavoro di Fenoaltea (2003) evidenzia come la specializzazione industriale, nel Censimento 1871, era già lievemente maggiore nel Centro-Nord che nel Sud e, all interno della prima area, nelle regioni del triangolo industriale. In termini di indice di industrializzazione relativa, costruito come rapporto tra la quota del valore aggiunto industriale e quella della popolazione maschile con più di 15 anni per regione, il valore del Centro-Nord era pari a 1,06 (mentre nel triangolo industriale arrivava a 1,21), di poco superiore a quello del Sud (0,90). La Campania, all epoca la regione più industrializzata del Mezzogiorno, riportava un valore dell indice circa pari a 1. I divari si ampliano decisamente dopo il 1881, notando Fenoaltea (2003) che quindi non risulta nessun effetto unificazione particolarmente negativo per il Mezzogiorno, con un incremento che si mantiene elevato fino al Censimento del Se l industria cresce come quota in tutto il Centro- Nord, in termini relativi diminuisce invece al Sud: nel 1911 il valore dell indice risultava pari a 1,16 nel Centro-Nord, con una punta di 1,45 nelle regioni del triangolo industriale; era solo pari a 0,74 15

16 nelle regioni del Mezzogiorno. In particolare la Campania, che nel 1901 risultava con un indice pari a 1,03, si trova nel 1911 con un indice pari a 0,94. La questione è quindi di capire i motivi per cui i processi di industrializzazione, partendo dalle regioni del triangolo industriale, si sono diffusi al resto del Centro-Nord ma non poi nel Mezzogiorno. Nella letteratura relativa ai prerequisiti dell industrializzazione si è spesso messo in evidenza il ruolo dei sistemi infrastrutturali, in particolare in quello dei trasporti, e nella disponibilità di capitale umano. Riguardo il primo elemento, è noto come il Mezzogiorno possa vantare un abbrivio superiore dal punto di vista tecnologico. Infatti, la storia delle ferrovie in Italia inizia con l'apertura di un breve tratto di linea ferroviaria, la Napoli-Portici, che venne inaugurata il 3 ottobre I maggiori investimenti avvengono comunque, successivamente al 1848, nello stato sabaudo. Riporta Eckaus (1960) che alla vigilia dell'unità d'italia (1859) la rete piemontese assommava a 819 km, quella del Lombardo-Veneto a 522 km, quella Toscana a 101 km, quella del Regno delle Due Sicilie a 99 km e quella dello Stato Pontificio vedeva circa 257 km in esercizio. In termini di km di ferrovia per 1000 abitanti, al 1,92 registrato nel Regno di Sardegna si contrapponeva lo 0,1 appena del Regno delle due Sicilie. L evoluzione successiva delle linee ferroviarie portò alla costituzione, in 20 anni, di altri 6500 km. di binari, costituenti l innervatura della rete dello stato unitario. Ma il giudizio su ruolo delle ferrovie sullo sviluppo economico italiano non è concorde (Cannari e Chiri, 2002): se secondo Romeo (1959) l industrializzazione aveva seguito, in senso temporale e causale, la costruzione delle ferrovie, secondo Gerschenkron (1962) il sistema industriale italiano non era sviluppato a sufficienza per trarre pieno beneficio dallo sviluppo della rete ferroviaria. Fenoaltea (2007) segnala comunque che le infrastrutture che più hanno contato per lo sviluppo sono state quelle della rete regionale del Nord-Ovest, in larga misura avviate prima dell unificazione del Paese. Inoltre, afferma sempre Fenoaltea, bisogna ricordare che lo Stato costruì le ferrovie, ma impose tariffe alte che ne limitarono l uso, impedendo a queste di unificare il mercato nazionale. Analogo è il caso delle strade: nel 1863 i km di strade per mille abitanti sono 4,7 in Piemonte, 6,5 in Lombardia, circa 6,2 nel Centro ma solo 1,7 nel Meridione continentale e in Sardegna, 1,1 in Sicilia. Questo conferma l isolamento del Mezzogiorno dal resto dell Europa a metà ottocento, solo in parte mitigato dalla navigazione costiera. Molte analisi si sono anche concentrate sui divari esistenti in termini di capacità istituzionale di guidare i processi di crescita e, in senso più lato, sulla diversa dotazione di capitale sociale tra le aree del Paese. In questo filone si inseriscono gli studi che si sono focalizzati sulla relazione tra diritti di proprietà della terra e di altre risorse produttive, assetti sociali e sviluppo economico (Putnam, 1993). In particolare, la presenza diffusa della mezzadria nel Centro-Nord, insieme ai 16

17 primi nuclei di borghesia industriale, poteva formare la base per la costituzione di un capitalismo motore dello sviluppo. Così non era nel Mezzogiorno, dove la presenza di una proprietà terriera prevalente di tipo latifondista non favoriva gli investimenti nell industria nascente. Nel complesso, quindi, le potenzialità di sviluppo del Centro-Nord al momento dell unificazione apparivano più elevate di quelle del Mezzogiorno, come poi si sono rivelate nei fatti. A questo contribuivano anche i divari in termine di ordine pubblico (il fenomeno del brigantaggio e della criminalità organizzata, sviluppatisi al Sud), di amministrazione della giustizia, di lontananza relativa dal centro europeo (Inghilterra, Olanda, Germania, Francia), di diffusione delle piccole e medie imprese impiegate nelle industrie leggere (come seta, tessili, meccanica), articolatesi in distretti con un felice esito competitivo (Ciocca, 2007). Tali differenze si sarebbero manifestate in seguito, e le politiche economiche volte al riequilibrio territoriale dei divari di sviluppo non si sarebbero dimostrate capaci di riassorbirle. 1.3 L evoluzione dei divari regionali nel secondo dopoguerra Alla fine del secondo dopoguerra il divario in termini di PIL pro capite, espresso in valori correnti, tra Centro-Nord e Sud si colloca tra i livelli più elevati: un abitante del Mezzogiorno raggiunge in media un reddito pro capite pari solo a poco più della metà di quello nel resto del Paese. Varie sono state le difficoltà che il Mezzogiorno ha dovuto affrontare (Saraceno, 1961): lo squilibrio territoriale nello sviluppo delle reti infrastrutturali, specie quella della produzione elettrica, basata all epoca sulle risorse idriche, disponibili solo per il 10% al Sud, che era quindi costretto ad approvvigionarsi di energia a prezzi più elevati; le politiche protezionistiche, che avvantaggiarono l industria nascente al Nord e penalizzarono l agricoltura meridionale; gli scandali bancari e finanziari, i cui ripianamenti ci appaiono oggi come una forma grandiosa di finanziamento pubblico, sia pure a posteriori, di una espansione industriale localizzata soprattutto al Nord (Saraceno, 1961). A questo si aggiunsero i disastri causati dalla guerra: le distruzioni e le dislocazioni colpirono prevalentemente il Sud (Ciocca, 2001), mentre la conversione delle industrie belliche e lo stravolgimento dei pezzi relativi, in particolare tramite l azzeramento dei valori monetari (titoli pubblici e depositi bancari), favorirono l industria e gli industriali del Centro-Nord. Il contesto cambia rapidamente alla fine della Seconda guerra mondiale. Dagli anni 50 il Mezzogiorno entra, come tutto il Paese del resto, in una golden age, dove il processo di convergenza sia economica che sociale con il resto del Paese finalmente decolla. Questo non avviene immediatamente: la fase di crescita forte e stabile, del Mezzogiorno come dell intera economia italiana, si sviluppa principalmente negli anni 60, per poi interrompersi bruscamente dopo i tre forti shock che dopo l autunno del 1969 colpiscono l intero Paese: salariali, petroliferi, di finanza pubblica (Ciocca, 2007). Dopo alterne vicende e, come vedremo nel par. 3, differenti 17

18 tipologie di politiche di intervento nel Mezzogiorno, la conclusione è che in quasi sessant anni il divario di crescita tra le regioni del Sud e il resto del Paese non si è riassorbito, a dispetto dei forti cambiamenti avvenuti nella struttura produttiva e nelle politiche. Nel 2009, sei decadi dopo la fine della guerra, il gap del Mezzogiorno con il resto del Paese era pari a 41 punti percentuali, con una riduzione di solo 6 punti rispetto al 1951 (Fig. 6). Il risultato è comunque, per molti versi, positivo: nel periodo il Sud è cresciuto circa agli stessi ritmi di quello del Centro Nord (a prezzi costanti, in termini pro capite, il 2,6% annuo rispetto al 2,8% nel resto del Paese), rimanendo comunque ancorato ad un area tra le più dinamiche in Europa, con un netto miglioramento delle condizioni economiche e sociali. Tale sviluppo non può essere considerato però soddisfacente: sia perché il Mezzogiorno rimane un area in ritardo di sviluppo rispetto al resto del Paese, con il permanere di una questione meridionale in termini economici e politici; sia perché evidenzia il mancato funzionamento dei processi di convergenza, che avrebbero dovuto sostenere con forza il catching up di una regione povera in un Paese ricco e invece rendono tale divario stabile e resistente alle politiche; sia infine perché è risultato comunque inferiore agli obiettivi che le politiche regionali si erano dati. Fig. 6. Andamento del PIL pro capite del Mezzogiorno e del Centro-Nord dal 1951 al 2009; valori assoluti (scala a destra) e livello del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord (scala a sinistra) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ 18

19 Una rappresentazione analitica delle dinamiche del prodotto e della popolazione delle due aree è presentata nella Tab. 1. Tab.1. Tassi medi annui di variazione % del prodotto, della popolazione e del prodotto pro capite tra il 1951 ed il 2009 Ripartizioni territoriali di cui di cui di cui Prodotto lordo a prezzi correnti Centro-Nord 9,8 8,7 10,8 22,0 12,7 17,6 10,9 5,1 4,2 7,3 4,7 2,6 9,9 Mezzogiorno 10,0 8,4 11,4 21,5 13,2 19,6 10,9 4,7 3,6 5,4 4,8 2,3 9,9 Italia 9,9 8,6 11,0 21,9 12,8 18,1 10,9 5,0 4,1 6,9 4,7 2,5 9,9 Prodotto lordo a prezzi costanti Centro-Nord 5,6 6,4 5,0 3,8 2,4 0,6 3,0 1,7 0,1 3,0 1,8 0,0 3,3 Mezzogiorno 5,0 5,1 4,9 3,2 2,2 1,5 2,5 1,4-0,5 0,9 2,1-0,3 2,9 Italia 5,5 6,1 5,0 3,6 2,3 0,8 2,9 1,6-0,1 2,5 1,9 0,0 3,2 Popolazione residente Centro-Nord 0,8 0,7 0,9 0,3-0,1-0,1-0,1 0,1 0,0-0,1 0,1 1,0 0,5 Mezzogiorno 0,4 0,5 0,2 0,6 0,2 0,3 0,2 0,0 0,2 0,2-0,1 0,2 0,3 Italia 0,7 0,6 0,7 0,4 0,0 0,0 0,0 0,0 0,1 0,0 0,0 0,7 0,4 Prodotto pro capite a prezzi correnti Centro-Nord 9,0 7,9 9,8 21,6 12,8 17,7 11,0 5,0 4,2 7,4 4,5 1,6 9,4 Mezzogiorno 9,6 7,9 11,1 20,7 13,0 19,3 10,7 4,7 3,5 5,2 5,0 2,1 9,6 Italia 9,2 7,9 10,2 21,4 12,8 18,0 10,8 5,0 4,0 6,8 4,7 1,8 9,4 Prodotto pro capite a prezzi costanti Centro-Nord 4,8 5,7 4,1 3,4 2,4 0,7 3,1 1,6 0,1 3,1 1,7-0,9 2,8 Mezzogiorno 4,6 4,6 4,6 2,6 2,0 1,2 2,3 1,4-0,6 0,7 2,2-0,5 2,6 Italia 4,8 5,4 4,3 3,2 2,3 0,8 2,9 1,6-0,1 2,5 1,8-0,7 2,8 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. 19

20 Il prodotto pro capite, indicatore utilizzato come misura del livello di sviluppo di un area, come s è detto, è formato da due componenti: una relativa alla produttività (il prodotto per occupato), e una relativa alla capacità di dare lavoro (il tasso di occupazione, espresso, in questo caso, come rapporto tra occupati e abitanti dell area). La Fig. 7 mostra il contributo delle due componenti alla dinamica del divario (espresso in termini di prodotto pro capite a prezzi costanti) per i diversi periodi considerati. Fig 7. Scomposizione del divario espresso dal PIL pro capite (a prezzi correnti): produttività e tasso di occupazione (in %) Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ Tab. 2. Tassi medi annui di variazione % del prodotto per unità di lavoro del totale economia tra il 1951 ed il 2009 Ripartizioni territoriali di cui di cui di cui Centro-Nord 5,3 5,5 5,2 2,7 1,7 0,3 2,2 1,5 2,2 3,3 0,7-0,4 2,8 Mezzogiorno 5,3 5,2 5,4 2,1 1,7 0,9 2,1 1,4 1,7 2,2 1,1-0,1 2,8 Italia 5,3 5,5 5,2 2,5 1,7 0,5 2,2 1,5 2,1 3,1 0,8-0,3 2,8 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. 20

21 Nel complesso, la riduzione del divario, che passa dal 52,7% del 1951 al 59% del 2009 è attribuibile completamente ai guadagni di produttività: nello stesso periodo il prodotto per occupato nel Mezzogiorno cresce relativamente al Centro-Nord dal 64,6% all 85,5%. Tale incremento, di oltre 20 punti percentuali, parzialmente compensa l andamento relativamente negativo dell occupazione: il tasso di occupazione era pari nel 1951 all 81% di quello del Centro-Nord, solo al 68,9% nel La produttività appare il fattore determinante nella riduzione dei divari: in tutti i periodi considerati la produttività contribuisce a ridurre il gap, anche se l effetto è particolarmente forte nel decennio degli anni 60. Dagli anni 60, le regioni del Mezzogiorno, insieme alle regioni ancora arretrate del Centro- Nord, come Veneto, Friuli, Marche, riducono i divari con le regioni del Nord-Ovest. In questi anni si registra in queste aree un rapido aumento del prodotto per addetto, conseguente al diffondersi di una struttura industriale caratterizzata da una elevata produttività in un economia ancora prevalentemente agricola. Il prodotto per addetto (a prezzi costanti) cresce, nel periodo , del 5,3% annuo, come nel resto del Paese (Fig. 8). L aspetto che desta particolare interesse è il ruolo dei movimenti demografici, e in particolare delle migrazioni, nei processi di sviluppo nel Mezzogiorno. In quest area diminuiscono le unità di lavoro nel trasferimento dal settore agricolo a quello industriale e dei servizi, mentre rimane rilevante l esodo emigratorio di chi ha difficoltà a collocarsi nei nuovi settori emergenti. Se si osserva l intero periodo , nel Mezzogiorno l occupazione stagna, mentre si incrementa dello 0,5% nel Centro-Nord (Tab. 3). Nello stesso periodo la popolazione residente aumenta nel Mezzogiorno poco meno della metà del resto del Paese (rispettivamente 0,3% e 0,5% annuo) (Fig. 9). Gli effetti si avvertono nelle differenze rispetto al tasso di occupazione, il cui divario fra le due parti del Paese si accentua, incrementando ulteriormente il gap in termini di prodotto pro capite. 21

22 Fig. 8. Andamento della produttività del Totale economia nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord dal 1951 al 2009 (euro costanti 2000) e rapporto tra Mezzogiorno e Centro-Nord (%) Fig. 9. Popolazione residente nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord dal 1951 al 2009 (migliaia di unità) 22

23 Come mostra con chiarezza la Fig. 6, il processo di recupero del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese si interrompe nella prima metà degli anni settanta. Anche in questo caso sembra particolarmente importante, se non determinante, il ruolo della componente demografica. Infatti, mentre la dinamica della produttività rimane simile a quella del Centro-Nord, si riduce il flusso migratorio. Questo si evidenzia nella Fig. 9: mentre si riduce l espansione della popolazione al Nord, cresce quella del Mezzogiorno. Dal 1973 al 1995 la popolazione residente in quest ultima area aumenta dello 0,4% annuo, mentre solo lo 0,1% nel resto del Paese. Tab.3. Tassi medi annui di variazione % delle unità di lavoro del totale economia tra il 1951 ed il 2009 Ripartizioni territoriali di cui di cui di cui Unità di lavoro dipendenti Centro-Nord 1,5 1,9 1,1 0,9 0,6-0,8 1,1 0,2-1,9-0,4 1,1 0,8 0,9 Mezzogiorno 1,3 1,7 0,9 1,1 0,4 0,5 0,4 0,2-1,1-1,5 1,2 0,0 0,7 Italia 1,4 1,9 1,1 0,9 0,5-0,4 0,9 0,2-1,7-0,7 1,2 0,6 0,9 Unità di lavoro Totali Centro-Nord 0,3 0,7-0,1 1,3 0,7 0,3 0,9 0,2-1,9-0,2 1,0 0,5 0,5 Mezzogiorno -0,4-0,2-0,6 1,2 0,5 0,6 0,4-0,1-2,1-1,4 0,9-0,4 0,0 Italia 0,0 0,4-0,3 1,2 0,6 0,4 0,7 0,1-2,0-0,5 1,0 0,2 0,3 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Sempre la Fig. 6 indica come vi sia una modesta ripresa dei processi di convergenza nella seconda metà degli anni novanta, che prosegue, con discontinuità, fino alla crisi recente. Alla base di tale recupero agiscono entrambi i fattori considerati: sia una ripresa relativa, sebbene anch essa modesta, di produttività (a prezzi correnti), sia anche un innalzamento relativo del tasso di occupazione, che segue una riapertura del flusso di emigrazione dal Sud verso al Nord, come si rileva sempre nella Fig.9. Dal 1995 al 2009 la produttività (a prezzi correnti) aumenta del 3,3% l anno al Sud, del 3% nel resto del Paese, mentre l occupazione cresce dello 0,6% (0,9% nel Centro Nord). Questi dati aiutano a capire perché il processo di convergenza delle regioni del Mezzogiorno, iniziato del dopoguerra, si sia interrotto, per riprendere, con moltissima lentezza, solo durante gli anni novanta. La letteratura su questi temi è ampia: responsabilità sono state attribuite a fattori internazionali (es. lo shock petrolifero, a cui hanno reagito in maniera diversa le due aree del 23

24 Paese), oppure istituzionali (la creazione delle regioni, che ha accentuato le differenze esistenti rispetto le capacità di amministrazione sul territorio), oppure ancora l eliminazione delle gabbie salariali o altro. Senza entrare nel merito delle cause ultime, si riporta di seguito l evidenza rispetto al processo di accumulazione e alle dinamiche del costo del lavoro fra le due aree. Tab.4. Tassi medi annui di variazione % degli investimenti fissi lordi del totale economia tra il 1951 ed il 2009 Ripartizioni territoriali di cui di cui di cui Centro-Nord 6,3 10,0 3,3 2,6 1,9-4,2 4,3 2,4-5,1 7,3 3,4-0,9 3,3 Mezzogiorno 7,9 11,2 5,2 0,9 2,5 2,2 2,6-0,9-9,6-5,3 3,7-0,8 3,2 Italia 6,9 10,4 4,0 2,1 2,1-2,1 3,7 1,4-6,6 3,6 3,5-0,9 3,3 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT e SVIMEZ. Le informazioni di contabilità nazionale ricostruite dalla Svimez mostrano un ruolo fondamentale dei processi di accumulazione nel catching up del dopoguerra. Il tasso di accumulazione nel Mezzogiorno è risultato nel periodo elevato e sempre superiore a quello registrato nel Centro-Nord (Fig. 10, Tab. 4): tale indicatore era pari al 17,2% nel 1951, un punto in meno di quello del Centro-Nord (18,7%), mentre vent anni dopo risultava quasi doppio (33,8% nel 1972), oltre 13 punti superiore a quello del resto del Paese (20,4%). Nel periodo successivo il processo di accumulazione si indebolisce, seguendo anche le alterne vicende delle politiche di sviluppo: il tasso di accumulazione crolla nel 1992, per risultare nel 1995 agli stessi livelli dei primi anni cinquanta (19,5%), qualche decimo di punto superiore a quello del Centro- Nord (18,6%). Il processo di accumulazione riprende con lentezza nella seconda parte degli anni novanta, ritornando nel 2009 al 21%, solo 2 punti in più di quello del Centro-Nord (18,6%). Il processo di convergenza delle regioni del Mezzogiorno segue quindi quello di accumulazione di capitale, privato e pubblico: l aumento relativo degli investimenti sostiene la dinamica positiva della produttività e quindi il recupero del differenziale di prodotto, mentre, quando il tasso di accumulazione scende, il differenziale di reddito tende a riaprirsi. Anche la quota di importazioni nette rispetto al PIL segue da vicino il processo di accumulazione: l acquisto di beni capitali dal resto del Paese è uno dei meccanismi con cui il Mezzogiorno incorpora tecnologia nei propri processi produttivi e quindi rimane agganciato alle traiettorie tecnologiche del Centro-Nord. 24

25 Fig. 10. Tasso di accumulazione nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord, e quota di importazioni nette in % del PIL nel Mezzogiorno dal 1951 al 2009 L andamento dei salari unitari nel Mezzogiorno non ha seguito quello, piuttosto discontinuo, della produttività: sia per effetto di composizione, dato dal passaggio da un economia di tipo prettamente agricolo ad una basata su una modesta presenza industriale, sia per il diffondersi di meccanismi equitativi nei salari, si assiste a un continuo recupero dei redditi per lavoratore. Nel 1951 il reddito da lavoro dipendente per dipendente era pari nel Mezzogiorno al 66,2% di quello del Centro-Nord, sessant anni più tardi all 89,9%. Essendo tale andamento molto più veloce di quello della produttività, il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato costantemente al Sud rispetto a quello del Centro-Nord, con un accelerazione alla fine degli anni sessanta (Fig. 11). Ne è seguita una perdita relativa di competitività del Mezzogiorno, che ha compresso i profitti, ridotto i margini per sostenere l accumulazione di capitale e nel complesso ha reso più fragile lo sviluppo. La riduzione del processo di accumulazione, in termini assoluti e relativi rispetto al Centro- Nord ha quindi frenato la crescita della produttività e, impattando sul costo del lavoro, anche la profittabilità dell area. Sono molteplici le ragioni che possono aver portato ad un andamento poco soddisfacente della dinamica degli investimenti dalla metà degli anni settanta, e appare molto complesso identificarne le principali. Inoltre il calo dell accumulazione dovrebbe essere analizzato insieme alle informazioni sull evoluzione del capitale umano e a quelle sull evoluzione della produttività totale dei fattori (TFP). 25

26 Fig. 11. Costo del lavoro per unità di prodotto per il totale economia del Mezzogiorno e del Centro- Nord (scala a destra) e livello del Mezzogiorno su Centro-Nord (scala a sinistra) dal 1951 al

27 2. Le trasformazioni dell economia e della società meridionale: modernizzazione senza convergenza L analisi del divario Nord-Sud presentata nel paragrafo precedente certamente non smentisce lo straordinario percorso di crescita fatto registrare dall intero Paese nei 150 anni di storia unitaria. Uno sviluppo cui hanno partecipato a pieno titolo anche le regioni del Mezzogiorno. I mutamenti intervenuti sono stati profondi sia nella struttura economica dell area, sia, soprattutto, nelle condizioni sociali delle sue popolazioni. Un percorso di accumulazione di capitale produttivo e sociale certamente discontinuo, che ha alternato periodi di intenso sviluppo, quasi sempre coincidenti con la crescita dell intero Paese, a fasi di interruzione o anche di vero e proprio declino. Al termine dunque di una lunga storia di successi e fallimenti, ci troviamo in presenza di un Mezzogiorno profondamente diverso, che almeno nella fase repubblicana ha tenuto il passo di modernizzazione delle regioni del Centro-Nord, ma che non ha modificato la struttura sostanzialmente dualistica del nostro Paese. Ciò è chiaramente confermato, tra tutti gli indicatori disponibili, dalla assai più rilevante quota di forza lavoro che al Sud non trova occupazione. Una lettura delle principali trasformazioni del Mezzogiorno, e con esso del Centro-Nord, nel periodo esaminato, serve non solo a confermare l ovvia considerazione dei processi di mutamento avvenuti ma anche a verificare il diverso contributo che le varie fasi storiche hanno apportato alla costruzione di un società più ricca e ad un benessere più diffuso. Il Prodotto interno lordo a prezzi costanti del Mezzogiorno è cresciuto tra il 1861 e 2010 di circa 18 volte. Il processo di sviluppo è stato assai diseguale: nel primo secolo di storia unitaria, periodo in cui si è determinato il divario di prodotto tra le due aree, il PIL del Sud è cresciuto di poco più di 3 volte a fronte di una crescita quasi doppia nel resto del Paese. Un contributo straordinario all accumulazione di capitale economico del Sud è provenuto invece dal ventennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale: tra il 1951 e il 1974 il PIL meridionale si è triplicato, crescendo più che in tutto il secolo precedente. In un contesto di accelerata crescita del Paese, il Sud è riuscito a mantenere il passo del Centro-Nord. Nei successi vent anni, il PIL meridionale è cresciuto assai di meno, passando dal 307% del valore del 51 nel 1974 al 467% nel 1992 (Tab. 5). Ancora minore è stata la dinamica nella fase più recente, nel corso della quale il prodotto meridionale ha subito un modesto incremento, raggiungendo nel 2009 il 518% del valore del Se dunque dividiamo lo sviluppo complessivo del Sud in tre segmenti equivalenti, possiamo verificare che il Sud è cresciuto di 3 volte tra il 1861 e il 1951, di altre tre volte nel ventennio aureo e di altre tre volte nei successivi 40 anni fino ai giorni nostri. 27

28 Tab. 5 Andamento del Prodotto interno lordo dal 1861 al 2009 (a) Ripartizioni territoriali = =100 Mezzogiorno 208,3 320,1 306,1 467,6 518,2 Centro.Nord 257,5 591,5 354,0 565,1 664,8 Italia 239,4 491,7 342,0 540,2 626,7 (a) Calcolato su valori a prezzi costanti 2000 Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati tratti da"150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud, " 2.1 Le trasformazioni dell economia meridionale: un processo interrotto Nella lunga fase che dai primi anni 50 arriva sino al primo shock petrolifero del 1973, lo sviluppo dell economia italiana è stato intenso e sostanzialmente regolare. Ad esso il Mezzogiorno destinatario sin dai primi anni 50 di una politica regionale mirata partecipa in significativa misura. Sia nel periodo di preindustrializzazione, fino al 1961, che nel successivo dodicennio di politica attiva di industrializzazione ( ), il saggio di crescita medio annuo del prodotto interno lordo risulta nel Mezzogiorno notevolmente sostenuto (nell ordine, 5,1% e 4,9%), e non di molto minore di quello del Centro-Nord (nell ordine, 6,4% e 5,0%). Negli anni dal 1951 al 1973 l attività produttiva è cresciuta a scala nazionale con un intensità che non verrà più eguagliata nei periodi seguenti. Nel Mezzogiorno il valore aggiunto complessivo è aumentato ad un tasso del 4,8% in media all anno, poco meno che nel Centro-Nord (5,6%). E in questa fase che intervengono i più importanti mutamenti nella struttura dell economia e della società del Mezzogiorno. Una profonda e radicale trasformazione interessa più direttamente il settore agricolo e quello industriale. Il primo settore perde le connotazioni di un economia di sussistenza per assumere sempre più le caratteristiche di una moderna economia agricola; nel secondo alla caduta, di rilevante intensità, delle attività di artigianato tradizionale si contrappone un altrettanto intenso sviluppo dell industria moderna. L agricoltura è investita da uno straordinario sviluppo riconducibile all agire congiunto della riforma agraria, dei consistenti investimenti della Cassa per il Mezzogiorno in opere di bonifica e di irrigazione, nonché della rapida e diffusa adozione di innovazioni tecniche. I risultati, in termini di crescita del valore aggiunto agricolo, sono nel Mezzogiorno sempre significativamente superiori quelli del resto del Paese (2,3% a fronte dell 1,3%). 28

29 Gli effetti del processo di modernizzazione dell economia meridionale sono particolarmente rilevanti in termini di accelerazione del processo di industrializzazione. Gli effetti del nuovo indirizzo della politica meridionalistica (l.n. 634 del 1957 e l.n. 555 del 1959) cominciarono a manifestarsi nel corso degli anni 60. Un tale sforzo di localizzazione degli investimenti industriali al Sud si tradusse in un incremento del valore aggiunto dell industria meridionale tra il 1962 e il 1973 più elevato che nel Centro-Nord (+9,1% contro +7,2%), a differenza che tra il 1951 e il 1961 (+8,2% contro +9%). L intensità della trasformazione prodottasi negli anni 60 è confermata dalla netta riduzione del divario medio di produttività del sistema meridionale rispetto a quello medio nazionale: fatto uguale a 100 il valore aggiunto per occupato dell industria in senso stretto nel Nord, quello del Mezzogiorno, che nel 1951 era pari a 56,7 salì nel 1971 a 76,1. Il recupero di produttività dell industria meridionale fu dovuto in misura significativa oltre che ai progressi delle singole branche dell industria allo spostamento di addetti dai settori tradizionali a minore produttività a settori moderni (Cafiero e Padovani, 1989). Tali progressi furono certamente dovuti anche alla localizzazione, ad opera di imprese esterne all area, di impianti di grandi dimensioni in settori ad alta intensità di capitale (metallurgia, chimica, mezzi di trasporto ed elettronica). Si valuta che il contributo offerto dalle unità produttive a proprietà esterna all area, in tutte le classi dimensionali, all incremento complessivo di addetti verificatosi nel periodo censuario oscilli intorno al 70% (Prezioso e Servidio, mimeo 2011). Gli effetti sulla composizione dimensionale dell industria meridionale sono rilevanti. Tra il 1951 e il 1981 la dimensione media delle unità locali dell industria meridionale si è più che quadruplicata, passando da 11,6 a 48,7, riducendo significativamente la distanza dai valori medi del Centro-Nord. Tab. 6 Ampiezza media delle unità locali dell'industria in senso stretto (a) Anni Mezzogiorno Centro-Nord Italia ,96 49,24 36, ,62 68,64 50, ,70 52,46 51, ,23 32,25 30,94 (a) Media entropica Fonte: Elaborazioni SVIMEZ su dati ISTAT: Censimento generale dell'industria e dei servizi vari anni 29

30 In questo quadro di intensa crescita e di accelerazione del processo di industrializzazione muta profondamente la struttura settoriale dell economia meridionale. In poco più di venti anni la quota di valore aggiunto agricolo scende dal 28,6% al 14,5% mentre il peso dell industria in senso stretto sale dal 14 al 17%, il massimo raggiunto prima di ricominciare a declinare dall inizio degli anni 80 sino ad oggi, quando torna a meno del 12%. Anche per quanto riguarda la struttura dell occupazione, si assiste nel periodo ad una profonda ricomposizione interna tra settori. Ciò, contrariamente a quanto avviene per il valore aggiunto, si determina in un contesto di riduzione della forza lavoro complessiva impiegata. Tra il 1951 e il 1973 le unità di lavoro totali fanno segnare al Sud una contrazione dello 0,4% a fronte di un modesto incremento nel Centro-Nord (+0,3%). In questo periodo dunque lo sviluppo dell economia italiana, con una particolare accentuazione al Sud, è conseguito non attraverso l aumento degli occupati ma esclusivamente per effetto dell incremento della produttività media degli occupati. L effetto netto è ovviamente sintesi di una riduzione dell occupazione agricola e di una crescita degli altri settori, più sostenuta nei servizi (soprattutto nei non vendibili, cioè essenzialmente nella Pubblica Amministrazione) e nelle costruzioni piuttosto che nell industria in senso stretto al Sud. Nonostante una dinamica dell occupazione industriale meno accentuata che nel Nord, il tasso di industrializzazione (addetti nel settore sulla popolazione) meridionale, dopo una forte flessione alla fine degli anni 50, subisce nel corso degli anni 60, in conseguenza della localizzazione di nuovi impianti di grandi dimensione, un significativo incremento, che sarà poi annullato nel corso degli anni 80. Va comunque rilevato, a conferma dell incompletezza del processo di trasformazione dell economia meridionale, che esso si mantiene comunque su livelli pari a circa la metà di quelli del Nord. 30

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