LA TERAPIA ANTITROMBOTICA NELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA



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LA TERAPIA ANTITROMBOTICA NELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA D. Prisco (Firenze), M. Comeglio (Firenze), R. De Caterina (Pisa) La fonte di queste linee guida è una bozza di lavoro della SISET (3/98) attualmente in fase di correzione e non ancora sottoposta a diffusione INFARTO MIOCARDICO D. Prisco (Firenze), M. Comeglio (Firenze), R. De Caterina (Pisa) Prevenzione primaria dell'infarto miocardico La prevenzione primaria dell'infarto miocardico si fonda essenzialmente sul controllo dei principali fattori di rischio coronarico, in particolare nei soggetti in cui essi tendono ad addensarsi, sia attraverso opportune regole comportamentali sia, quando indicato, attraverso provvedimenti terapeutici che si sono dimostrati efficaci nel ridurre il rischio, quali il trattamento antiipertensivo o il trattamento ipocolesterolemizzante con statine. Il ruolo dell'aspirina nell'ambito della prevenzione primaria della cardiopatia ischemica è stato oggetto di due classici studi che hanno coinvolto due ampie popolazioni di medici. Nel British Doctors' Trial, condotto in Inghilterra (Peto R et al. 1988), 500 mg al giorno di aspirina non si sono dimostrati in grado di ridurre l'incidenza di infarto miocardico rispetto al placebo, e la riduzione della mortalità generale (-10%) non ha raggiunto la significatività statistica. Viceversa nel Physicians' Health Study, condotto negli Stati Uniti (Steering Commitee of the Physicians' Health Study Research Group, 1989), nel gruppo di medici che aveva assunto 325 mg di aspirina a giorni alterni è stata osservata una significativa riduzione dell'incidenza di infarto miocardico fatale e non fatale (-47%), associata però ad un significativo aumento di stroke emorragico. La non univocità dei dati in nostro possesso rende pertanto improponibile il trattamento con aspirina a lungo termine nella popolazione generale a basso rischio; comunque opinione di chi scrive che tale opzione possa tuttavia essere presa in considerazione nei soggetti in cui si realizza un marcato addensamento di fattori di rischio cardiovascolare. Non vi sono attualmente dati attendibili circa l'impiego di altri antiaggreganti piastrinici.

Terapia dell'infarto miocardico acuto (IMA) 1) Trombolisi Nella grande maggioranza dei casi un IMA con onde Q si verifica in conseguenza del realizzarsi di una trombosi occlusiva a livello di una placca aterosclerotica per sua rottura o erosione superficiale con spiccata attivazione locale della coagulazione. Il significato prognostico della ricanalizzazione coronarica precoce è stato documentato da numerosi studi condotti con criteri moderni e rigorosi, che hanno dimostrato l'efficacia della terapia trombolitica nel ridurre la mortalità nei pazienti con IMA, con una efficacia massima quando il trattamento viene praticato entro 2-3 ore dall'esordio dei sintomi, ma con risultati favorevoli fino a 12 ore. Nel complesso il trattamento trombolitico si è dimostrato in grado di ridurre del 18% la mortalità a 35 giorni (p<0,00001), il che equivale ad evitare 18 decessi ogni 1000 pazienti trattati (Fibrinolytic Therapy Trialist Collaborative Group, 1994). L'aumento del rischio di stroke emorragico connesso all'impiego dei trombolitici rende relativamente critico il loro impiego, in particolare in presenza di un rischio emorragico elevato, i cui fattori predittivi sono generalmente considerati l'età avanzata (>65 anni), il peso corporeo inferiore ai 70 kg, e la presenza di ipertensione arteriosa. In una analisi complessiva che tenga conto degli effetti sulla mortalità, del rischio emorragico e di altri eventi avversi, le differenze tra i vari agenti fibrinolitici (streptochinasi, APSACanistreplase, t-pa) o le diverse modalità di somministrazione sono solo modeste. Ai fini di una riperfusione precoce, che rappresenta l'obiettivo primario della fibrinolisi, l'associazione di t-pa ed eparina per via infusiva sembra il trattamento più efficace, a prezzo però di un rischio emorragico maggiore e di un costo sensibilmente superiore. Si viene quindi a delineare la possibilità di scegliere l'agente fibrinolitico più idoneo in relazione alla latenza di intervento ed alle caratteristiche del paziente. L'impiego del t-pa risulta massimamente vantaggioso nel caso di breve latenza dall'esordio dei sintomi in pazienti con segni di IMA esteso ed a basso rischio emorragico, negli altri casi il rapporto costo/beneficio risulta a vantaggio della streptochinasi. Attualmente le indicazioni al trattamento trombolitico nei pazienti con sintomatologia altamente suggestiva di IMA possono essere così suddivise: Condizioni nelle quali utilità ed efficacia sono inequivocabili: - Sopraslivellamento del tratto ST-T (>0,1 mv in 2 o più

derivazioni contigue), tempo di esordio dei sintomi < 12 ore, età inferiore a 75 anni. - Blocco di branca che impedisce l'analisi del tratto ST in presenza di anamnesi suggestiva di IMA. Il vantaggio maggiore si ottiene in caso di IMA anteriore, ipotensione o tachicardia, e nei pazienti diabetici. Il vantaggio é minore in caso di IMA inferiore Condizioni nelle quali le prove sono nel complesso favorevoli: - Sopraslivellamento del tratto ST in soggetti di età = 75 anni Condizioni nelle quali le prove a favore dell'utilità e dell'efficacia sono limitate: - Sopraslivellamento del tratto ST-T (>0,1 mv in 2 o più derivazioni contigue), tempo di esordio dei sintomi tra 12 e 24 ore (generalmente dopo 12-24 ore il beneficio è minimo, tuttavia la trombolisi può essere presa in considerazione in caso di dolore persistente di esteso sopralivellamento del tratto ST). - Pressione arteriosa sistolica al ricovero > 180 mmhg e/o pressione diastolica >110 mmhg in presenza di IMA ad alto rischio (in questo caso il rischio di ictus emorragico è maggiore per cui il potenziale beneficio della terapia trombolitica deve essere attentamente soppesato). Non vi è indicazione al trattamento trombolitico in caso di sopraslivellamento del tratto ST oltre le 24 ore dall'esordio dei sintomi e dolore regredito, o in caso di solo sottoslivellamento del tratto ST (IMA non Q). Controindicazioni e cautele nell'impiego della trombolisi nell'ima Il rischio maggiore della trombolisi è costituito dalle complicanze emorragiche, in particolare cerebrali, per cui il suo impiego è controindicato in caso di: Pregresso ictus emorragico in qualsiasi epoca Altri ictus o altri eventi cerebrovascolari nell'ultimo anno Neoplasie endocraniche Altre controindicazioni sono rappresentate da: Emorragie interne in atto Sospetta dissezione aortica Controindicazioni relative all'uso della trombolisi sono: Ipertensione arteriosa non controllata al ricovero (>180/110 mmhg) Anamnesi di pregresso evento cerebrovascolare o patologia intracranica non inclusi nelle controindicazioni assolute Terapia anticoagulante in range terapeutico (INR >2) o diatesi

emorragica nota Trauma recente (= 2-4 settimane) Punture vascolari in sedi non comprimibili Emorragia interna recente (= 2-4 settimane) Precedente trattamento con anistreplase o streptochinasi o precedenti reazioni allergiche Gravidanza Ulcera peptica attiva Anamnesi di grave ulcera peptica cronica. 2)Antiaggreganti piastrinici Sul finire degli anni '80 lo studio ISIS-2 ha fornito dati convincenti sull'efficacia dell'aspirina, da sola o in associazione alla streptochinasi (SK), nella fase acuta dell'infarto miocardico (ISIS-2 Collaborative Group, 1988). In questo studio, 17.187 pazienti arruolati entro 24 ore dall'insorgenza dell'ima, sono stati randomizzati in tre gruppi di trattamento controllati con placebo: a) 162,5 mg/die di aspirina per os; b) 162,5 mg/die di aspirina per os associata a 1,5 milioni di U di SK in infusione e.v. di 1 ora; c) 1,5 milioni di U di SK in infusione e.v. di 1 ora. Dopo 5 settimane di follow-up, il trattamento con sola aspirina ha determinato una riduzione del 23% della mortalità (p<0,00001), del 50% circa dell'incidenza di reinfarto precoce e del 46% di stroke rispetto al placebo. Nel gruppo trattato solamente con SK la riduzione della mortalità era dello stesso ordine (25%), mentre l'associazione di aspirina e SK determinava una riduzione della mortalità ancora maggiore (42%). I pazienti da trattare per evitare un evento erano rispettivamente: 42 per l'aspirina, 36 per la SK e 19 per l'associazione. Negli anni successivi altri studi hanno confermato l'efficacia della associazione di aspirina e trombolitici nell'infarto miocardico acuto (Hsia et al, 1990; Meijer et al, 1991; Basinski et al, 1991; Roux et al, 1992). Nel 1994 sono stati pubblicati i risultati dell'antiplatelet Trialists' Collaboration (Antiplatelet Trialists' Collaboration, 1994), la più ampia e recente metanalisi complessiva effettuata sugli studi condotti con antiaggreganti piastrinici in varie condizioni a rischio tromboembolico. I dati relativi ai pazienti con IMA (18.773 pazienti arruolati in 9 studi controllati) hanno confermato l'efficacia del trattamento antiaggregante (nel 95% dei casi con aspirina) che, ad un mese, ha determinato: a) una significativa riduzione della mortalità vascolare (9,3%

aspirina vs 11,7% placebo; p<0,00001) equivalente alla prevenzione di 24 eventi vascolari ogni 1000 pazienti trattati; b) una riduzione dell'incidenza di eventi vascolari successivi (reinfarto, stroke o morte vascolare) (10,6% aspirina vs 14,4% placebo; p<0,00001), che equivale ad evitare 38 eventi ogni 1000 pazienti trattati; c) una significativa riduzione dei reinfarti non fatali (1,0% aspirina vs 2,2% placebo; p<0,00001) che equivale a prevenire 12 reinfarti ogni 1000 pazienti trattati. Attualmente vi è unanime accordo che il trattamento con aspirina (160-325 mg al giorno) dovrebbe essere iniziato nella prima giornata di un IMA e continuato indefinitamente. In caso di reale allergia all'aspirina possono essere usati il dipiridamolo (75 mg 3 volte al giorno) o la ticlopidina (250 mg 2 volte al giorno). L'avvento degli inibitori della glicoproteina IIb/IIIa ha aperto una nuova frontiera nella terapia delle sindromi ischemiche acute. Ad oggi, esistono solo dati preliminari molto promettenti sulla loro efficacia nell'infarto acuto, unitamente alla riperfusione mediante angioplastica. In particolare, nel sottogruppo di pazienti con IMA arruolati nello studio EPIC (Evaluation of c7e3 for the Prevention of Ischemic Complications) si avuta una sensibile riduzione dell'incidenza di eventi cardiaci maggiori a 30 giorni nel gruppo in trattamento con abciximab bolo+infusione (4,5% vs 26,1%, p = 0.06) (Lefkovits et al, 1996). Studi angiografici hanno mostrato che la somministrazione di abciximab durante IMA si associa ad un tasso di pervietà del vaso responsabile dell'infarto, con flusso TIMI 3, del 35% a 90 minuti; tale risultato sovrapponibile a quello ottenuto nello studio GUSTO 1 con la streptochinasi. Sulla base di queste osservazioni sono in corso diversi trial volti a saggiare l'efficacia di abciximab in associazione alla trombolisi a dosi scalari. I risultati preliminari dello studio TIMI 14 sembrano indicare che l'associazione di abciximab con rt-pa 35 mg sia la pi vantaggiosa, con una patency rate a 90 minuti del 63% (Antman, 1997). Questi studi dovranno inoltre valutare il profilo di sicurezza del trattamento in termini di complicanze emorragiche. Sebbene i dati attualmente disponibili siano in gran parte preliminari, abciximab trova indicazione nell'ima in cui venga scelta l'angioplastica diretta quale strategia di riperfusione. Gli studi in corso definiranno l'efficacia di abciximab in associazione con la trombolisi a bassa dose. 3)Agenti antitrombinici La trombina è un elemento cruciale nella catena di eventi che

conducono alla trombosi coronarica ed all'ima: catalizza la conversione del fibrinogeno in fibrina; costituisce un potente stimolo per l'attivazione delle piastrine (stimolo che oltretutto non è influenzato dall'azione dell'aspirina); si lega al trombo dove continua a catalizzare la trasformazione di fibrinogeno in fibrina quando esposta al sangue circolante. Nel tentativo di aumentare ulteriormente i benefici ottenibili con il trattamento fibrinolitico, e soprattutto di evitare la riocclusione coronarica, è stato valutato l'impiego di farmaci in grado di inibire l'azione della trombina. Le proprietà antitrombiniche dell'eparina ed il suo impiego nell'ambito delle sindromi coronariche acute sono ampiamente documentati. Sulla base dei risultati ottenuti negli studi prospettici, l'impiego dell'eparina nell'ima risulta giustificato nelle seguenti condizioni: 1)Condizioni nelle quali utilità ed efficacia sono inequivocabili: a)nei pazienti da sottoporre a rivascolarizzazione coronarica chirurgica o tramite angioplastica percutanea 2)Condizioni nelle quali le prove sono nel complesso favorevoli: a)per via e.v. nei pazienti da sottoporre a trombolisi con t-pa (bolo 70 U/kg all'inizio della trombolisi + infusione in modo da mantenere il PTT pari a 1,5-2 volte il valore basale nelle successive 48 ore). b)eparina s.c. (7500 U s.c. 2 volte al giorno) in tutti i pazienti non sottoposti a trombolisi e senza controindicazioni all'eparina. Nei pazienti ad alto rischio di embolia sistemica è preferibile l'infusione e.v. c)eparina e.v. nei pazienti trattati con streptochinasi, anistreplase o urochinasi ad alto rischio di embolia sistemica Prevenzione secondaria Antiaggreganti piastrinici La terapia antiaggregante piastrinica è in grado di offrire anche una protezione di lunga durata nei confronti di successivi eventi ischemici cardiovascolari in pazienti con recente o pregresso infarto miocardico acuto. Le prime indicazioni sulla possibile efficacia preventiva dell'aspirina nei pazienti con pregresso IMA erano state ottenute negli anni '70 in uno studio condotto a Cardiff su 1239 pazienti seguiti per 18 mesi, nel quale l'aspirina alla dose di 300 mg/die si era dimostrata in grado di ridurre del 25% la mortalità rispetto al placebo, ed in uno studio condotto nell'area di Boston che aveva ottenuto risultati analoghi (Elwood et al, 1974; Boston

Collaborative Drug Surveillance Group, 1974). Successivamente vari altri studi hanno documentato l'efficacia dell'aspirina nel post-infarto (The Aspirin Myocardial Infarction Study (AMIS) research group, 1980; The Persantin-Aspirin Reinfarction Study I (PARIS I) research group, 1980; Klimt CR et al (PARIS II), 1986). I risultati dell'antiplatelet Trialists' Collaboration (Antiplatelet Trialists' Collaboration, 1994), relativi a circa 20.000 pazienti con pregresso infarto miocardico arruolati in 11 studi randomizzati e controllati, hanno confermato che il trattamento antiaggregante condotto per 12-41 (in media 27) mesi dopo l'evento è in grado di ridurre l'incidenza di nuovi eventi vascolari (reinfarto, stroke o morte vascolare) dal 17,1% al 13,5% (p<0,00001), che equivale ad evitare 36 eventi ogni 1000 pazienti trattati. Nell'88% dei casi il farmaco impiegato era l'aspirina con dosaggio variabile tra 300 e 1500 mg/die. In base a questi dati l'aspirina dovrebbe essere somministrata, in assenza di controindicazioni specifiche, a tutti i soggetti con infarto miocardico acuto e/o una storia di pregresso infarto miocardico. Per quanto riguarda il dosaggio dell'aspirina il problema, ormai più che decennale, persiste tutt'oggi. Il confronto indiretto degli effetti proporzionali sugli eventi vascolari di tre diversi dosaggi di aspirina, da 500 a 1500 mg, da 160 a 325 mg ed inferiori a 160 mg, indicano una riduzione simile degli end-point che va dal 21% al 26% (da notare che gli studi clinici pi numerosi sono stati effettuati con dosaggi di 500-1500 mg) e che i limiti di confidenza al 95% relativi agli studi con dosaggi <160 mg/die comprendono l'unità, indicando il non raggiungimento, per questi dosaggi, dei consueti criteri di significatività statistica (Antiplatelet Trialists' Collaboration, 1994). Nessuna dose si è pertanto dimostrata più efficace di un'altra, mentre sicuramente i dosaggi più elevati sono meno tollerati e possono aumentare il rischio di emorragie gastrointestinali e cerebrali. L'aspirina è in grado di bloccare completamente la ciclo-ossigenasi alla dose anche di 50 mg/die (De Caterina et al, 1985), sembra quindi ragionevole che dosaggi di questo ordine di grandezza possano essere ottimali. 100 mg al giorno di aspirina dopo un IMA sono stati impiegati in un singolo studio controllato di dimensioni limitate (Verheugt et al, 1990), nel quale la somministrazione di 100 mg di aspirina, iniziata entro 12 ore dall'inizio dei sintomi, ha determinato una significativa riduzione delle recidive di infarto ad un follow-up di 3 mesi (4% aspirina vs 18% placebo; p<0,03), pur non determinando riduzioni significative dell'area infartuale (-10%; p = N.S.). Attualmente, in

rapporto alla praticità dell'assunzione e alla buona compliance dimostrata, i dosaggi maggiormente impiegati nella prevenzione del reinfarto e della mortalità vascolare nei pazienti con precedente infarto del miocardio vanno da 300 mg a 100 mg al giorno. Sulla base di considerazioni fisiopatologiche che valutano persistente il rischio di trombosi murale o occlusiva in presenza di aterosclerosi già sintomatica, al momento attuale appare opportuno continuare il trattamento indefinitivamente. Si è recentemente concluso il CAPRIE, uno studio randomizzato, multicentrico, in cieco, di I livello, che ha reclutato 19.185 pazienti con patologia aterosclerotica vascolare suddivisi in tre sottogruppi, comprendenti pazienti con recente stroke ischemico, recente infarto del miocardio o patologia arteriosa periferica sintomatica seguiti in un follow-up da 1 a 3 anni, che aveva come scopo quello di confrontare l'efficacia relativa di un derivato della ticlopidina (clopidogrel) alla dose di 75 mg/die e dell'aspirina alla dose di 325 mg/die sulla riduzione del rischio complessivo di stroke ischemico, infarto miocardico e morte per cause vascolari (CAPRIE, 1996). I risultati di questo studio hanno messo in evidenza una significativa riduzione del rischio relativo dell'8,7% a favore del clopidogrel, dimostrando come la somministrazione a lungo termine del clopidogrel a pazienti con patologia aterosclerotica vascolare sia più efficace di quella dell'aspirina. In particolare, l'analisi dei sottogruppi indicherebbe che la riduzione del rischio relativo per gli end-point combinati sia significativamente maggiore nel gruppo di pazienti affetti da patologia arteriosa periferica sintomatica, anche se la dimensione campionaria dello studio CAPRIE non era stata fissata per rilevare differenze tra i tre sottogruppi, ma sull'intera popolazione, per cui non è lecito concludere che uno dei gruppi tragga maggiori vantaggi dalla terapia con clopidogrel. Anticoagulanti orali Nei primi anni '80 lo studio Sixty Plus (The Sixty Plus Reinfarction Study Research Group, 1980), condotto in pazienti ultrasessantenni per valutare l'efficacia della terapia con anticoagulanti orali nel post-infarto, aveva dimostrato come tale strategia terapeutica fosse in grado di ridurre la mortalità del 28% e l'incidenza di reinfarto del 45%. Lo scarso seguito avuto da tale studio è legato alle complicanze emorragiche associate all'uso degli anticoagulanti, alla necessità di un monitoraggio costante della terapia con anticoagulanti orali ed all'assenza di una chiara dimostrazione di un maggiore beneficio rispetto agli

antiaggreganti (Breddin et al, 1979; The EPSIM Research Group. 1982), farmaci sicuramente più maneggevoli. Per questo la terapia con anticoagulanti è stata riservata solo a situazioni cliniche ben definite con l'intento di prevenire la tromboembolia arteriosa (IMA anteriore esteso, IMA con grave dilatazione e/o ridotta funzione ventricolare sinistra, presenza di trombosi endoventricolare, fibrillazione atriale) nelle quali il vantaggio dal loro impiego è fuori discussione (Hirsh, 1991; Cairns et al, 1992). Due studi pubblicati negli ultimi anni hanno riproposto l'interesse verso la terapia con anticoagulanti nel postinfarto. Nel Warfarin Reinfarction Study (WARIS) (Smith P et al, 1990), 1214 pazienti sono stati randomizzati a ricevere warfarin (INR 2,8-4,8) o placebo con un follow-up medio di 37 mesi. I risultati dello studio hanno mostrato una riduzione statisticamente significativa della mortalità e reinfarto (24% e 34% rispettivamente) con il trattamento anticoagulante rispetto al placebo. Nell'Anticoagulants in the Secondary Prevention of Events in Coronary Thrombosis (ASPECT) (Anticoagulants in Secondary Prevention of Events in Coronary Thrombosis Research Group, 1994), 3404 pazienti post-ima sono stati randomizzati a ricevere warfarin (INR 2,8-4,8) o placebo con un follow-up medio di 37 mesi. I dati dello studio hanno mostrato una riduzione non statisticamente significativa della mortalità (10%) ed una riduzione significativa dell'incidenza del reinfarto o eventi cerebrovascolari (50% e 40% rispettivamente) nel gruppo trattato con warfarin rispetto al gruppo in terapia con placebo. In entrambi gli studi il rischio di complicanze emorragiche maggiori è stato molto basso (0,6% e 1,5%, rispettivamente), confermando quindi la relativa sicurezza nell'impiego degli anticoagulanti orali, tuttavia la mancanza di confronto diretto con l'aspirina ha fatto sì che l'uso non selezionato degli anticoagulanti sia ancora oggi raramente impiegato. Recentemente lo studio Coumadin Aspirin Reinfarction Study (CARS) (Coumadin Aspirin Reinfarction Study (CARS) Investigators, 1997) ha valutato l'efficacia del trattamento con sola aspirina (160 mg/die) nei confronti dell'associazione aspirina-warfarin a basso dosaggio e non regolato sulla base dei valori di INR (ASA 80 mg/die + warfarin 3 mg/die; ASA 80 mg/ die + warfarin 1 mg/die) nella prevenzione del reinfarto miocardico in oltre 8800 pazienti. Dai risultati dello studio emerge che l'associazione tra aspirina ed anticoagulanti orali a dosi fisse non è in grado di apportare ulteriori benefici clinici rispetto alla

terapia con sola aspirina nella prevenzione del reinfarto, stroke ischemico non fatale o morte cardiovascolare (8,4% ASA 80mg/ die + warfarin 3 mg/die vs 8,8% ASA 80 mg/die + warfarin 1 mg/ die vs 8,6% ASA 160 mg/die). L'incidenza di complicanze emorragiche nei tre bracci di trattamento è risultata sovrapponibile. Uno studio diretto di confronto di aspirina e anticoagulanti orali regolati a seconda dell'inr non ha potuto dimostrare differenze di efficacia tra i due trattamenti, con un'incidenza significativamente maggiore di complicanze emorragiche nel gruppo trattato con warfarin (AFTER Study, Julian et al, 1996). Tale studio era tuttavia sottodimensionato per poter rilevare differenze di efficacia. In conclusione, i dati ad oggi disponibili (in assenza di un valido confronto diretto tra aspirina e anticoagulanti orali regolati sulla base dell'inr) indicano che nel post-infarto il trattamento con aspirina (da 100 a 325 mg al giorno) rappresenta, in assenza di controindicazioni specifiche, una scelta terapeutica irrinunciabile in tutti i pazienti con basso o assente rischio tromboembolico. Il trattamento dovrebbe essere proseguito per almeno tre anni dall'evento o, meglio, sine die. Resta in sospeso invece l'uso del clopidogrel (non disponibile fra l'altro in Italia) per questa indicazione. In tutti i pazienti che presentano un alto rischio tromboembolico (IMA anteriore esteso, ampie zone di disfunzione ventricolare sinistra, trombosi ventricolare sinistra, in presenza o meno a fibrillazione atriale) l'impiego degli anticoagulanti orali, mantenendo un INR tra 3 e 4,5 (l'unico validato da trial), rappresenta l'opzione terapeutica di scelta. ANGINA INSTABILE D. Prisco (Firenze), M. Comeglio (Firenze), R. De Caterina (Pisa) Aspirina Gli studi clinici controllati volti a valutare l'efficacia dell'aspirina nell'angina instabile hanno dimostrato un vantaggio significativo in termini di riduzione della mortalità e dell'incidenza di infarto miocardico fatale e non fatale. L'effetto favorevole è risultato indipendente dal dosaggio, dal momento di ingresso nello studio e dalla durata del follow-up (Theroux e Lidon, 1994). Il primo studio, il Veterans Administration Cooperative Study, condotto all'inizio degli anni '80 con una dose di 324 mg di aspirina (Lewis et al, 1983), dimostrò una riduzione della mortalità generale ai

limiti della significatività statistica (aspirina 1,6% vs placebo 3,3%; -51%; p= 0,054), una riduzione significativa del rischio di infarto non fatale (aspirina 3,4% vs placebo 6,9%; -51%; p=0,0005) e dell'end-point combinato IMA e morte (aspirina 5% vs placebo 10,1%; -50%; p=0,0005). Risultati analoghi sono stati ottenuti in studi successivi. L'analisi per sottogruppi effettuata nel contesto dell'antiplatelet Trialists' Collaboration (Antiplatelet Trialists' Collaboration, 1994) ha dimostrato che su 4018 pazienti con angina instabile, il trattamento antiaggregante condotto per almeno un mese (per lo più con aspirina) ha ridotto del 35% l'incidenza di eventi vascolari rispetto al gruppo non trattato (aspirina 9,1% vs placebo 14%; p<0,00001), che equivale ad evitare circa 49 eventi ogni 1000 pazienti trattati (è necessario trattare circa 20 pazienti per evitare un evento). Ticlopidina Lo studio italiano STAI (Studio della Ticlopidina nell'angina Instabile) (Balsano et al, 1990) ha confrontato la ticlopidina 500 mg/die, in aggiunta alla terapia convenzionale, con la sola terapia convenzionale in 652 pazienti con angina instabile. Il follow-up era di sei mesi e l'end-point era costituito da infarto miocardico non fatale e mortalità cardiovascolare. All'analisi intention to treat la frequenza degli eventi era del 7,3% nel gruppo ticlopidina nei confronti del 13,6% del gruppo di controllo con una riduzione relativa del rischio del 46,3% mentre l'infarto fatale e non fatale era ridotto del 53,2%. Inibitori della glicoproteina IIb/IIIa Dal gennaio 1998 le indicazioni di abciximab in Italia, dapprima limitate all'ambito della PTCA, sono state estese anche al trattamento dell'angina instabile indipendentemente dalla procedura di rivascolarizzazione. Questa indicazione è emersa dai risultati dello studio CAPTURE (c7e3 Antiplatelet Therapy in Unstable Refractory Angina), condotto con abciximab nell'angina instabile refrattaria. In questo trial, 1265 pazienti sono stati randomizzati, dopo lo studio coronarografico ma prima della PTCA, in due gruppi: abciximab bolo+infusione per 18-24 ore vs terapia standard. A trenta giorni, i pazienti nel gruppo in trattamento attivo hanno mostrato una significativa riduzione del numero di eventi cardiaci maggiori rispetto al gruppo di controllo (11,3% vs 15,9%; p = 0,012), da attribuire principalmente alla riduzione dell'incidenza di infarto acuto; tale riduzione risulta significativa anche nelle ore precedenti la PTCA (The CAPTURE

Investigators, 1997). Pertanto, sulla base di questi risultati abciximab viene somministrato nell'angina instabile col fine, da un lato di aumentare la probabilità di raffreddamento del quadro clinico e di ridurre il rischio di infarto, e dall'altro di ridurre le complicanze associate ad un'eventuale angioplastica. Eparina non frazionata La terapia anticoagulante con eparina non frazionata per via infusiva è efficace nel trattamento dei pazienti con angina instabile in misura anche superiore rispetto all'aspirina e costituisce ormai da anni un elemento consolidato in questa condizione clinica. La capacità dell'eparina di catalizzare le reazioni di inattivazione della trombina, del fattore Xa e del fattore XIa mediate dall'antitrombina III e dal cofattore eparinico II, costituisce la base razionale per il suo impiego. Agli inizi degli anni Ô80 Telford e Wilson (Telford e Wilson, 1981) pubblicarono il primo studio condotto con criteri moderni sull'impiego della terapia anticoagulante con eparina non frazionata nei pazienti con angina instabile, dimostrando che l'eparina era in grado di ridurre significativamente sia l'incidenza di infarto miocardico acuto che la mortalità, e che tale vantaggio persisteva nelle successive 7 settimane, quando il trattamento con eparina veniva sostituito dalla terapia anticoagulante orale con warfarin. In seguito Theroux e collaboratori (Theroux et al., 1988; Theroux et al., 1992) hanno dimostrato l'efficacia dell'eparina standard somministrata per via endovenosa nel ridurre l'incidenza di angina refrattaria, di infarto miocardico acuto (fatale e non fatale) e di eventi totali nella fase acuta dell'angina instabile, dimostrando la superiorità del trattamento anticoagulante con eparina rispetto al trattamento con aspirina. L'interruzione del trattamento con eparina può associarsi ad una riattivazione della malattia con elevata incidenza di eventi coronarici, questo "rebound", attribuibile alla brusca cessazione della protezione antitrombotica, può essere evitato con la somministrazione di aspirina (Theroux et al., 1992). Risultati nella stessa direzione sono stati ottenuti da Neri Serneri e collaboratori (Neri Serneri et al., 1990), nel cui studio l'impiego dell'eparina e.v. in infusione continua si è dimostrato più efficace dell'aspirina e del trattamento trombolitico (t-pa) nel ridurre il numero e la durata degli episodi ischemici, sintomatici o silenti, in 97 pazienti con angina instabile. Successivamente lo stesso gruppo (Neri Serneri et al., 1995) ha dimostrato la possibilità di ottenere risultati analoghi con l'impiego

di eparina standard non frazionata a dosaggio anticoagulante somministrata per via sottocutanea. Nello studio condotto in Svezia dal Research Group on Instability in Coronary Artery Disease (RISC) (The RISC Group, 1990), controllato verso placebo, 945 pazienti sono stati randomizzati a ricevere aspirina e/o eparina e.v. intermittente. L'associazione tra eparina ed aspirina ha mostrato un'efficacia maggiore nel ridurre l'incidenza di eventi rispetto al trattamento con sola aspirina. Risultati nella stessa direzione sono stati ottenuti in pazienti con angina instabile o IMA non-q nello studio Antithrombotic Therapy in Acute Coronary Syndromes (ATACS) (Cohen et al., 1994), nel quale 214 pazienti con angina instabile o infarto miocardico non- Q sono stati randomizzati al trattamento con sola aspirina (162,5 mg/die) o al trattamento con aspirina più anticoagulanti (162,5 mg/die aspirina + eparina seguita da warfarin con INR tra 2 e 3). Il trattamento combinato ha determinato una significativa riduzione degli eventi coronarici (morte, infarto e ripresa dell'angina) rispetto al trattamento con sola aspirina (10% vs 27%, p = 0,004) durante un follow-up di 12 settimane. Eparine a basso peso molecolare La farmacocinetica delle eparine a basso peso molecolare differisce da quella dell'eparina classica in molti aspetti: oltre ad avere un migliore assorbimento per via sottocutanea, esse presentano una ridotta affinità per le proteine plasmatiche, una proprietà che rende ragione della loro superiore biodisponibilità (90%-100% contro 30-40%), della più lunga emivita e di una attività anticoagulante più prevedibile. Dopo somministrazione endovenosa, l'attività delle eparine a basso peso molecolare, valutata come attività anti fattore Xa, decresce con andamento esponenziale con una emivita che è circa doppia rispetto a quella dell'eparina classica (Verstraete e Wessler., 1992). Inoltre le eparine a basso peso molecolare hanno una minore affinità per il fattore von Willebrand (Sobel et al., 1991), elemento che verosimilmente rappresenta uno dei motivi della minore incidenza di sanguinamenti riportata con l'uso delle eparine a basso peso molecolare rispetto all'eparina standard a parità di effetti antitrombotici (Andriuoli et al 1985., Bergqvist et al., 1985). In base a queste considerazioni ed agli effetti anticoagulanti in qualche modo più prevedibili, che ne rendono possibile la somministrazione per via sottocutanea senza necessità di monitoraggio, l'impiego delle eparine a basso peso molecolare è stato oggetto di alcuni studi recenti nelle sindromi coronariche

acute. Lo studio Fragmin During Instability Study in Coronary Disease (FRISC), controllato contro placebo (Fragmin During Instability in Coronary Artery disease (FRISC) study Group. 1996) ha valutato l'impiego della dalteparina (120 UI/kg/12 h s.c. per 6 giorni) in aggiunta alla terapia antianginosa e all'aspirina in pazienti con angina instabile o infarto miocardico acuto non-q ottenendo una riduzione significativa (3,8% nel gruppo trattato con LMWH vs 7,7 % nel gruppo senza l'aggiunta di LMWH) dell'end-point combinato: morte, infarto miocardico acuto, recidiva di angina. Un vantaggio che tuttavia non si è mantenuto in maniera statisticamente significativa (p = 0,07) a 40 giorni di follow-up ed è stato completamente perso dopo 150 giorni dall'inizio del trattamento. Nello studio Fragmin During Instability in Coronary disease (FRIC Trial) (Klein et al., 1996), Klein e collaboratori hanno confrontato l'impiego della dalteparina 120 UI s.c. due volte al giorno e dell'eparina standard e.v. per 48 ore senza evidenziare significative differenze nell'incidenza degli end point combinati (morte, infarto miocardico acuto, recidiva di angina) tra i due regimi terapeutici. In uno studio successivo, Gurfinkel e collaboratori (Gurfinkel et al., 1995) hanno randomizzato 219 pazienti con angina instabile e infarto miocardico acuto non-q a ricevere uno dei seguenti trattamenti: a) aspirina 200 mg/die; b) aspirina 200 mg./die più eparina standard con una dose iniziale di 400 UI/kg i.v. regolata successivamente secondo l'aptt; c) aspirina 200 mg./die più nadroparina 85 UI/kg anti-xa due volte al giorno s.c. Nel gruppo trattato con nadroparina e aspirina è stata registrata una minore incidenza di recidive di angina rispetto ai gruppi trattati con aspirina da sola o aspirina associata a eparina standard e.v. (rispettivamente 21% vs 37% e 44%). Nel gruppo in terapia con aspirina e nadroparina, è risultata ridotta anche l'incidenza di ischemia silente (25 % vs 38% e 41 % rispettivamente). Più recentemente risultati analoghi sono stati raggiunti anche da Bednarkiewicz e collaboratori (Bednarkiewicz et al., JACC 1997) i quali hanno confrontato gli effetti della nadroparina (250 UI/kg/die e.v.) e dell'eparina standard, in aggiunta alla terapia antianginosa, in 176 pazienti con angina instabile. In questo studio il gruppo trattato con nadroparina ha ottenuto, oltre ad una minore incidenza di complicanze

emorragiche, una significativa riduzione dell'incidenza di IMA (13,5 % vs 17,5 %) e della necessità di ricorrere a coronarografia d'urgenza, senza tuttavia significative riduzioni della mortalità. Dagli elementi in nostro possesso sino a questo momento possiamo quindi concludere che nell'angina instabile e nell'infarto miocardico acuto non-q, l'aspirina (100-300 mg al giorno) rappresenta un trattamento di scelta in tutti i pazienti che non presentano controindicazioni specifiche. L'eparina in infusione e.v. deve essere iniziata immediatamente e mantenuta fino al raffreddamento dell'angina (mantenendo un aptt pari a 1,5-2,5 volte il valore basale); la sospensione deve essere graduale e comunque in presenza di trattamento con aspirina. Le eparine a basso peso molecolare rappresentano il trattamento di scelta nei pazienti con intolleranza nei confronti dell'eparina non frazionata (Premmereur, 1997). ANGINA STABILE DA SFORZO D. Prisco (Firenze), M. Comeglio (Firenze), R. De Caterina (Pisa) L'analisi condotta su un sottogruppo di 333 soggetti con angina stabile nell'ambito del Physicians' Health Study ha mostrato che il trattamento con aspirina non determinava variazioni significative nella frequenza o nell'intensità degli episodi anginosi, ma era in grado di ridurre significativamente l'incidenza di IMA (Manson et al, 1990). Una conferma dell'efficacia dell'aspirina nei pazienti con angina stabile è stata fornita dal successivo Swedish Angina Pectoris Aspirin Trial Group (SAPAT) (Juul-Moller et al, 1992), nel quale su 2035 pazienti in trattamento con beta-bloccanti (sotalolo 160 mg/die), la metà hanno ricevuto anche 75 mg/die di aspirina. Ad un follow-up di circa 50 mesi nel gruppo trattato con aspirina è stata osservata una riduzione del 34% dell'end-point primario (IMA e morte cardiaca improvvisa), legato per la maggior parte ad una riduzione dell'incidenza di IMA non fatale. L'analisi dei dati di questo studio ha permesso di stimare che nei pazienti con angina stabile da sforzo l'associazione tra sotalolo (160 mg/die) ed aspirina (75 mg/die) è in grado di prevenire 1 caso di IMA non fatale ogni 34 pazienti ed 1 caso di morte improvvisa ogni 100 pazienti trattati. Infine, anche nel sottogruppo di pazienti con angina stabile analizzati nel contesto dell'antiplatelet Trialists' Collaboration (Antiplatelet Trialists' Collaboration, 1994) (circa 3000 pazienti) è stata osservata nei soggetti trattati con aspirina una significativa

riduzione degli eventi cardiovascolari (-33%; p < 0,005). Sulla base di questi risultati il trattamento con aspirina nei pazienti con angina stabile da sforzo appare pienamente giustificato. Non si hanno invece dati sufficienti per quanto riguarda gli altri antiaggreganti piastrinici. BY-PASS AORTO-CORONARICO D. Prisco (Firenze), M. Comeglio (Firenze), R. De Caterina (Pisa) La rivascolarizzazione coronarica tramite by-pass può andare incontro a complicanze occlusive che ne limitano l'efficacia. Particolarmente esposti al rischio di occlusione sono i graft venosi, con una incidenza del 15-20% nel primo anno e di oltre il 50% entro 7-10 anni (Bourassa et al, 1973; Campeau, 1977; Chesebro et al, 1982), mentre l'uso di vasi arteriosi (mammarie interne, gastroepiploiche e radiali) è gravato da un rischio di occlusione molto inferiore, ma non è sempre attuabile. La patologia a carico dei graft venosi può essere distinta in tre momenti fondamentali: a. una fase post-operatoria precoce, nel primo mese, caratterizzata da una elevata incidenza di occlusione trombotica (circa il 10%); b. una fase intermedia, nel primo anno, caratterizzata dallo sviluppo di iperplasia intimale con facilitazione dei processi aterosclerotici e possibile tendenza trombotica; c. una fase tardiva, caratterizzata dallo sviluppo e dalla progressione dei processi aterosclerotici analogamente a quanto si verifica nei vasi nativi. Nell'occlusione precoce dei graft venosi le piastrine e l'attivazione della coagulazione rivestono un ruolo fondamentale, per cui il trattamento post-operatorio con antiaggreganti piastrinici è stato oggetto di una ampia serie di studi. All'inizio degli anni '80 Chesebro, Fuster e coll. dimostrarono che l'associazione tra dipiridamolo (75 mg x 3 die) ed aspirina (325 mg x 3 die) era in grado di ridurre significativamente l'incidenza di occlusione dei by-pass venosi, sia precoce (2,8% trattati vs 10,5% ad un mese; p<0,001) che tardiva (11,1% vs 24,9% a 12 mesi; p<0,01) rispetto al gruppo di controllo (Chesebro et al, 1982; Chesebro et al, 1984). Successivamente uno studio condotto dalla Veterans Administration (Goldman et al, 1984) ha confermato l'efficacia preventiva dell'aspirina anche alla dose di 325 mg/die, che è il dosaggio più largamente studiato, ed ha documentato che

l'associazione al dipiridamolo (75 mg x 3 al giorno) non determinava vantaggi aggiuntivi. Anche 100 mg al giorno iniziati entro 24 ore dall'intervento si sono dimostrati efficaci nel ridurre l'incidenza di occlusione del graft a 4 mesi (10% aspirina vs 32% placebo; p = 0,012) e l'incidenza dell'end-point combinato occlusione o eventi cardiovascolari (31% aspirina vs 65% placebo; p = 0,025) (Lorenz et al, 1984). Infine, anche i dati dell'antiplatelet Trialists' Collaboration (Antiplatelet Trialists' Collaboration, 1994) hanno confermato l'efficacia protettiva dell'aspirina, riportando una riduzione del rischio di occlusione del 41% (21% aspirina vs 30,3% placebo a 7 mesi; p<0,00001), che equivale a prevenire l'occlusione del by-pass in 92 casi ogni 1000 pazienti trattati (11 pazienti da trattare per prevenire un'occlusione). La somministrazione di aspirina prima dell'intervento è risultata associata ad una maggiore incidenza di sanguinamenti, senza significativi vantaggi in termini di efficacia rispetto alla somministrazione precoce (entro 6 ore dall'intervento) (Goldman et al, 1991). Attualmente lo schema terapeutico abituale nei pazienti sottoposti ad intervento di by-pass aortocoronarico prevede l'impiego di aspirina alla dose di 325 mg/die da iniziare quanto più precocemente possibile dopo l'intervento e da proseguire indefinitivamente. Alla terapia con aspirina può essere associato dipiridamolo, iniziando il trattamento 48 ore prima dell'intervento. La ticlopidina (250 mg x 2 al giorno) può essere il trattamento alternativo in caso di intolleranza all'aspirina. ANGIOPLASTICA CORONARICA ED IMPIANTO DI STENT D. Prisco (Firenze), M. Comeglio (Firenze), R. De Caterina (Pisa) L'angioplastica coronarica può essere complicata da infarto miocardico acuto (3-5%) o da necessità di rivascolarizzazione chirurgica di urgenza (3-7%), eventi per lo più legati ad una occlusione coronarica acuta secondaria a dissezione del vaso o allo sviluppo di una trombosi endoluminale. Il trattamento antiaggregante con aspirina (325 mg/die) o ticlopidina (250 mg x 2 al giorno) si è dimostrato in grado di ridurre significativamente il rischio trombotico e le complicanze ad esso connesse (Califf et al, 1992). L'analisi condotta nell'antiplatelet Trialists' Collaboration sui pazienti sottoposti a rivascolarizzazione coronarica tramite angioplastica (Antiplatelet Trialists'

Collaboration, 1994b), ha dimostrato che il trattamento antiaggregante è in grado di ridurre del 50% il rischio di occlusione nei primi 6 mesi successivi alla procedura, che equivale ad evitare 39 occlusioni ogni 1000 pazienti trattati per 6 mesi. Il rischio di trombosi endoluminale è particolarmente elevato in caso di impianto di stent coronarici, procedura nella quale la profilassi antitrombotica più impiegata e raccomandata dai produttori di stent prevedeva originariamente la somministrazione di aspirina (325 mg/die) associata a dipiridamolo (75 mg x 3 al giorno) prima della procedura, infusione e.v. di eparina durante la procedura seguita, dopo embricamento, da terapia con anticoagulanti orali da proseguirsi per circa 1 mese, mentre il dipiridamolo veniva continuato per tre mesi e l'aspirina indefinitivamente (The Palmaz-Schatz Stent Study Group, 1994). Più recentemente i risultati dello studio ISAR, condotto da Schoemig e coll. (Schoemig et al, 1996), hanno dimostrato come l'associazione di aspirina (100 mg x 2 al giorno) e ticlopidina (250 mg x 2 al giorno) sia in grado di ridurre significativamente l'incidenza di eventi cardiovascolari (IMA, mortalità cardiaca e necessità di reintervento) rispetto all'associazione tra anticoagulanti orali (INR = 3,5-4,5) e aspirina (100 mg x 2 al giorno) (1,6% contro 6,2%). Il trattamento antiaggregante combinato non è risultato gravato da complicanze emorragiche, che si sono invece verificate nel 6,5% dei pazienti in trattamento anticoagulante. Al recente Meeting dell'american Heart Association (1997) sono stati riportati i risultati preliminari dello studio STARS (Kuntz et al, 1997), nel quale 1655 pazienti sottoposti ad intervento di angioplastica coronarica con impianto di stent Palmaz-Schatz sono stati assegnati a ricevere uno dei seguenti trattamenti: 1) aspirina; 2) aspirina + warfarin; 3) aspirina + ticlopidina. Nel gruppo trattato con l'associazione di aspirina e ticlopidina è stata registrata una incidenza significativamente minore di eventi (morte, IMA, rivascolarizzazione coronarica d'urgenza) rispetto ai gruppi non trattati con ticlopidina (8,2% contro 12,4%; p = 0,01). In conclusione nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica il trattamento più efficace e sicuro nella prevenzione dell'occlusione precoce è costituito dagli antiaggreganti piastrinici. In particolare l'associazione aspirina + ticlopidina è da raccomandare in caso di impianto di stent coronarici. Nelle procedure elettive è opportuno

che il paziente inizi il trattamento 48 ore prima dell'intervento. Durante la procedura viene abitualmente somministrato un bolo di eparina e.v. (7.500-10.000 UI), ed eparina in infusione può essere mantenuta nelle successive 12-24 ore in relazione all'esito della procedura ed alle eventuali complicanze. Il trattamento con aspirina viene continuato indefinitivamente, mentre la somministrazione di ticlopidina viene generalmente interrotta dopo 2 mesi. Negli ultimi anni è stato dimostrato che alcuni inibitori della glicoproteina IIb/IIIa riducono significativamente l'incidenza di complicanze nella angioplastica coronarica, con o senza impianto di stent. Abciximab, l'inibitore della glicoproteina IIb/IIIa ad oggi più estesamente valutato, si è dimostrato efficace sia nella PTCA ad alto rischio (studio EPIC; The EPIC Investigators, 1994) che nelle procedure a più basso rischio (studio EPILOG - Evaluation of PTCA to Improve Long term Outcome by cf7e3 Glycoprotein receptor blockade - The EPILOG Investigators, 1997); tuttavia, poichè la terapia con abciximab si associa con un aumento dei costi e del rischio di complicanze emorragiche, la valutazione del rapporto costo/beneficio indica che il trattamento pi vantaggioso per le procedure ad alto rischio definito dalle caratteristiche angiografiche della lesione o dall'instabilità clinica dei pazienti (infarto miocardico acuto, angina instabile). BIBLIOGRAFIA D. Prisco (Firenze), M. Comeglio (Firenze), R. De Caterina (Pisa) Andriuoli G, Mastacchi R, Barbanti M, Sarret M. Comparison of the antithrombotic and hemorragic effects of heparin and a new low molecular weight heparin in rats. Haemostasis 1985; 15: 324-330 Anticoagulants in Secondary Prevention of events in Coronary Thrombosis (ASPECT) Research group. Effect long-term oral anticoagulant treatment on mortality and cardiovascular morbidity after myocardial infarction. Lancet 1994; 343:499-503 Antiplatelet Trialists' Collaboration. Collaborative overview of randomised trials of antiplatelet therapy-i: Prevention of death, myocardial infarction and stroke by prolonged antiplatelet therapy in various category of patients.

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