1 Numeri e spazi vettoriali complessi

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1 1 Numeri e spazi vettoriali complessi 1.1 Breve introduzione storica Si è soliti introdurre i numeri complessi, partendo dal problema della risoluzione dell equazione x 2 = 1; (1) ma questo non è il motivo storico della nascita dei numeri complessi. In effetti la risoluzione dell equazione (1) non poteva essere considerato un problema matematico aperto, nel senso che, fin dalla nascita dei numeri reali negativi, era ovvio che l equazione (1) non aveva soluzioni. La questione che ha dato l avvio allo studio dei numeri complessi è invece collegata al problema della risoluzione dell equazione di terzo grado. Cardano e Tartaglia avevano scoperto una formula per determinare una soluzione dell equazione x 3 + px + q = 0, alla quale si può ricondurre ogni equazione di terzo grado mediante un cambiamento lineare di variabile. La formula di Cardano è la seguente x = 3 q q p q q p3 27. (2) La formula non può essere utilizzata quando il discriminante, 4 + p3 27, è minore di 0, eppure ogni equazione di terzo grado ha almeno una radice reale. Ecco il problema matematico aperto: risolvere l equazione cubica nel casus irriducibilis, cioè quando il discriminante è minore di 0. Bombelli esaminò l equazione x 3 15x 4 = 0 (3) che appartiene al casus irriducibilis e ha la radice 4. Dalla formula di Cardano si otterrebbe x = Bombelli dimostrò, che, attribuendo un significato matematico alla radice quadrata di 1 (la chiama più di meno), se si pone = a + b 1 allora = a b 1; per cui applicando la formula di Cardano si ottiene x = (a + b 1) + (a b 1) = 2a. q 2 1

2 Bombelli non conosceva un algoritmo per l estrazione della radice cubica di , ma verificò che, estendendo le usuali regole del calcolo algebrico a espressioni che contenevano 1, (2 + 1) 3 = = , per cui a = 2, b = 1 e x = 4. Dunque l introduzione dell entità più di meno rendeva compatibile la radice 4 dell equazione (3) con la formula di Cardano (2). Non si poteva ancora affermare di aver risolto il casus irriducibilis, perché non era noto un algoritmo per determinare la radice cubica dell espressione a + b 1, ma la utilità di considerare, nella trattazione di problemi algebrici, l entità 1, chiamata successivamente unità immaginaria, era pienamente dimostrata. Soltanto due secoli più tardi, grazie a Gauss, verrà attribuita la natura di numero all espressione a + b 1, detta numero complesso. Per quanto in senso storico la nascita dei numeri complessi sia da ricondurre a problemi algebrici, in queste note i numeri complessi verranno introdotti seguendo una problematica geometrica. 1.2 Le coordinate polari Nel piano fissiamo un punto O, una semiretta r uscente da O e un verso per la misura degli angoli orientati che hanno r come primo lato. A ogni punto P del piano diverso da O possiamo associare due numeri: il primo ρ rappresenta la distanza di P da O, il secondo θ la misura in radianti dell angolo orientato che la semiretta uscente da O e passante per P forma con r. La coppia (ρ, θ) dà una rappresentazione del punto P in coordinate polari. Una precisazione è necessaria sulla misura dell angolo orientato. Senza entrare in sottili disquisizioni su cosa sia la misura di un angolo, segnaliamo che le coppie (ρ, θ) e (ρ, θ 1 ) corrispondono allo stesso punto se θ θ 1 = 2kπ, con k Z. Diversi approcci si trovano in letteratura, per trattare le difficoltà provenienti dalla mancanza di corrispondenza biunivoca fra i punti del piano e l insieme delle coppie di numeri reali (ρ, θ). Segnalo i due principali. Il primo, quello della geometria differenziale, prevede che vi siano infiniti sistemi di coordinate locali di tipo polare e quindi che un punto possa essere rappresentato da infinite coppie di numeri. Il secondo di tipo più algebrico, prevede che la misura dell angolo orientato sia un insieme infinito di valori, per cui le coordinate polari di un punto sono una coppia di cui il primo elemento è un numero reale positivo e il secondo un insieme di numeri reali che differiscono fra loro per multipli interi di 2π. Seguendo questo secondo approccio scriveremo dove P p (ρ, Θ). Θ = {θ + 2kπ} k Z. 2

3 ρ si chiama il modulo 1 di P ; Θ si chiama l argomento 2 di P. Quando scriviamo Θ 1 + Θ 2, intendiamo l insieme ottenuto sommando ogni numero del primo insieme con ogni numero del secondo e cioè l insieme 3 Θ 1 + Θ 2 := {θ 1 + θ 2 + 2kπ} k Z. Quando applichiamo a Θ una funzione trigronometrica si intende che la applichiamo a uno qualunque dei suoi valori, senza pericolo di confusione, perché ogni funzione trigonometrica ha 2π come periodo. Osserviamo infine che non vengono assegnate le coordinate polari del punto O. Per determinare le relazioni che esistono fra coordinate polari e coordinate cartesiane, mettiamo sul piano un sistema di riferimento cartesiano ortogonale, dove l origine coincide con O, l asse positivo delle ascisse x coincide con la semiretta r e l asse positivo delle ordinate y, ortogonale all asse delle ascisse in O, sia scelto, fra i due possibili, in modo tale che l angolo orientato xy ˆ misuri { π 2 + 2kπ} k Z. Se P ha coordinate cartesiane e coordinate polari allora, da un verso e dall altro 4 P (x, y) P p (ρ, Θ). { x = ρ cos(θ) y = ρ sin(θ) ρ = x 2 + y 2 x cos(θ) = sin(θ) = x2 +y 2 y. x 2 +y 2 (4) 1.3 Definizione dei numeri complessi L introduzione delle coordinate cartesiane nel piano permette di definire una corrispondenza biunivoca fra i punti del piano e R 2 e questa corrispondenza permette di trasportare sul piano l operazione di somma propria dello spazio vettoriale R 2. Per cui, se P 1 (x 1, y 1 ) e P 2 (x 2, y 2 ), poniamo 5 P 1 + P 2 : (x 1 + x 2, y 1 + y 2 ) 1 nella terminologia antica raggio vettore. 2 nella terminologia antica anomalia 3 in questo modo si garantisce che la misura dell angolo che si ottiene dalla giustapposizione del secondo spigolo di un angolo orientato con il primo spigolo di un secondo angolo orientato è uguale alla somma delle misure dei due angoli orientati. 4 evitiamo di dare un espressione espilicita per Θ, perché bisognerebbe prima convenire sulle definizioni delle funzioni arcoseno e arcocoseno. 5 la somma dei punti nel piano con origine fissata, può essere introdotta in modo puramente geometrico, con la regola del parallelogramma applicata ai vettori geometrici OP 1 e OP 2. 3

4 Quale operazione suggeriscono le coordinate polari fra i punti del piano privato dell origine? I moduli, essendo numeri reali positivi, hanno una struttura naturale di gruppo se considero la moltiplicazione; mentre, per quanto riguarda gli argomenti, ho una struttura di gruppo se considero la somma. Combiniamo le due operazioni precedenti, il prodotto dei moduli e la somma degli argomenti, in una nuova operazione per i punti del piano privato dell origine, che denotiamo provvisoriamente con : posto che sia P 1 p (ρ1, Θ 1 ) e P 2 p (ρ 2, Θ 2 ), definiamo P 1 P 2 : p (ρ 1 ρ 2, Θ 1 + Θ 2 ). Questa stessa operazione, in coordinate cartesiane assume l espressione P 1 P 2 ( x y2 1 x y2 2 (cos Θ 1 cos Θ 2 sin Θ 1 sin Θ 2 ), x y2 1 x y2 2 (cos Θ 1 sin Θ 2 + cos Θ 2 sin Θ 1 ) = Trasferiamo le operazioni così introdotte in R 2, (x 1 x 2 y 1 y 2, x 1 y 2 + x 2 y 1 ) (x 1, y 1 ) + (x 2, y 2 ) := (x 1 + x 2, y 1 + y 2 ) (x 1, y 1 ) (x 2, y 2 ) := (x 1 x 2 y 1 y 2, x 1 y 2 + x 2 y 1 ). Si prova che (R 2, +, ) è campo, cioè è un gruppo commutativo rispetto la somma (+) con elemento neutro (0, 0) gli elementi diversi da (0, 0) formano un gruppo rispetto al prodotto ( ), con elemento neutro (1, 0) vale la proprietà distributiva ((x 1, y 1 ) + (x 2, y 2 )) (x 3, y 3 ) = (x 1, y 1 ) (x 3, y 3 ) + (x 2, y 2 ) (x 3, y 3 ) Le verifiche delle proprietà sono tutte elementari; segnaliamo solo la prova dell esistenza dell inversa rispetto al prodotto 6 : sia (a, b) (0, 0), dobbiamo cercare (x, y) tale che (a, b) (x, y) = (1, 0) cioè { ax by = 1 bx + ay = 0 poichè il sistema ha una e una sola soluzione, essendo a 2 + b 2 0, l inverso di (a, b) esiste. 6 che peraltro è ovvia se si pensa al prodotto in termini di coordinate polari 4

5 Chiameremo (R 2, +, ) il campo dei numeri complessi e verrà semplicemente indicato con C; come d uso, eviteremo di scrivere il simbolo dell operazione prodotto, e converremo anche che in un espressione algebrica, in mancanza di parentesi, l operazione prodotto abbia priorità sull operazione di somma. La funzione f : R C x (x, 0) è iniettiva e tale che f(x + y) = f(x) + f(y) f(xy) = f(x)f(y) pertanto, se identifichiamo x R con (x, 0) C, possiamo considerare il campo C come un estensione del campo R. C eredita da R 2 anche la struttura di spazio vettoriale su R, quindi ho due operazioni di prodotto di un numero complesso per un numero reale, quella che c è in ogni spazio vettoriale di moltiplicazione di un vettore per uno scalare, e quella che deriva dal considerare ogni numero reale un particolare numero complesso. Per fortuna le due operazioni coincidono, per cui non vi è ambiguità nel prodotto di un numero reale per un numero complesso. La base standard di C come spazio vettoriale su R è formata dai numeri 7 (1, 0) e (0, 1), il numero (1,0) possiamo chiamarlo 1, corrispondendo al numero reale 1 e all unità del prodotto; chiamiamo unità immaginaria il numero (0, 1) e indichiamola sinteticamente con i. Formando 1 e i una base di C come R-spazio vettoriale, possiamo rappresentare il numero (x, y) C nel seguente modo (x, y) = x1 + yi = x + iy. Abbiamo che i 2 = 1; pertanto i è soluzione dell equazione x 2 = 1, ma anche i è soluzione, quindi la scrittura i = 1, che si trova in molto libri, è fonte di confusione, essendo equivoco il significato del simbolo. Indicheremo il generico numero complesso con la lettera z e volendo mettere in luce la decomposizione di cui sopra scriveremo z = x + iy. (5) x si chiama la parte reale di z (si indica Re(z)) e y la parte immaginaria (si indica Im(z)). La scrittura data dalla (5) è particolarmente comoda perché il prodotto fra due numeri complessi può essere eseguito con le usuali regole del calcolo algebrico, sostituendo 1 ogni volta che troviamo i 2. 7 gli elementi di C vengono chiamati numeri e non vettori 5

6 1.4 Alcune funzioni elementari su C La seguente funzione si chiama coniugio ed è particolarmente importante C C z = x + iy z := x iy La sua importanza deriva dal fatto che il coniugio è un isomorfismo di campi, cioè è biunivoca e gode delle seguenti proprietà z 1 + z 2 = z 1 + z 2 z 1 z 2 = z 1 z 2 La parte reale e la parte immaginaria di un numero complesso possono essere definite tramite il coniugio da Re : C R C z z+ z 2 Im : C R C z z z 2i Per il coniugio valgono le seguenti proprietà di facile verifica z = z z + z = 2Re(z) z z = 2iRe(z) z 1 = ( z) 1, per z 0 z = z z R z = z z ir, in tal caso diremo che z è un immaginario puro. Definiamo la funzione modulo di un numero complesso z = z+iy nel seguente modo z = x 2 + y 2, risulta z = Re(z) 2 + Im(z) 2 = z z. Trattandosi di numeri reali positivi o nulli, non c è equivoco col simbolo di radice, intendendosi con x il numero reale non negativo il cui quadrato è x. Inoltre se z è un numero reale il suo modulo coincide col valore assoluto, per cui non c è confusione nel simbolo usato. Per la funzione modulo valgono le seguenti proprietà z 0 e z = 0 z = 0 z = z Re(z) z, Im(z) z, z Im(z) + Re(z) 6

7 z 1 z 2 = z 1 z 2 z 1 = z 1, per z 0 z 1 + z 2 z 1 + z 2 z 1 + z 2 z 1 z 2. Segnaliamo la dimostrazione delle ultime due relazioni, essendo le altre immediate: z 1 + z 2 2 = (z 1 + z 2 )(z 1 + z 2 ) = z z 1 z 2 + z 1 z 2 + z 2 2 = similmente (passaggi abbreviati) z z 1 z 2 + z 1 z 2 + z 2 2 = z Re(z 1 z 2 ) + z 2 2 z z 1 z 2 + z 2 2 = z z 1 z 2 + z 2 2 = z z 1 z 2 + z 2 2 = z 1 z 2 2 = z 1 2 2Re(z 1 z 2 ) + z 2 2 z (z 1 z 2 ) + z 2 2 = ( z 1 z 2 ) 2. ( z 1 + z 2 ) 2, 1.5 La rappresentazione trigoniometrica di un numero complesso Scriviamo un numero complesso z = x + iy diverso da 0 nella forma Poiché ( Re(z) z z = z ( Re(z) z + i Im(z) ). z ) 2 ( ) 2 + Im(z) z = 1, possiamo anche scrivere z = z (cos Θ + i sin Θ). (6) dove Θ = {θ + 2kπ} k Z rappresenta la misura 8 dell angolo orientato che la semiretta uscente da 0 e passante per 1 forma con la semiretta uscente da 0 e passante per z; esso è tale che cos Θ = Re(z) z e sin Θ = Im(z) z. Θ si dice l argomento di z. La funzione argomento è definita per tutti numeri complessi diversi da 0 ed è un esempio di funzione a più valori. 8è doveroso segnalare che la definizione di misura di un angolo, specie se orientato, è questione assai delicata e autorevoli matematici ritengono che questa non possa essere data in mamiera corretta se non in un corso di analisi complessa o in un corso di teoria della misura; purtroppo ragioni didattiche impongono anticipare le definizioni delle funzioni trigonometriche, ed anche la rappresentazione trigonometrica di un numero complesso. 7

8 Siano z 1 = ρ 1 (cos θ 1 + i sin θ 1 ) z 2 = ρ 2 (cos θ 2 + i sin θ 2 ), due numeri complessi, con θ 1, θ 2 R e ρ 1, ρ 2 R + ; se z 1 = z 2, allora, essendo cos θ + i sin θ = 1, abbiamo ρ 1 = ρ 1 cos θ 1 + i sin θ 1 = ρ 1 (cos θ 1 + i sin θ 1 ) = z 1 = z 2 = ρ 2 (cos θ 2 + i sin θ 2 ) = ρ 2 cos θ 2 + i sin θ 2 = ρ 2, quindi cos θ 1 = cos θ 2 e sin θ 1 = sin θ 2. Poiché l implicazione nell altro verso è ovvia, possiamo concludere che z 1 = z 2 { ρ1 = ρ 2 k Z : θ 1 = θ 2 + 2kπ (7) Pertanto, se rapprensentiamo la misura di un angolo orientato con un insieme di numeri reali Θ = {θ + 2kπ} k Z, un numero complesso non nullo è univocamente determinato dalla sua rappresentazione (6). Per ogni θ Θ z = z (cos θ + i sin θ) si chiama una rappresentazione trigonometrica di z. Tornando alla (6) Θ si chiama l argomento di z e ogni θ Θ si chiama una determinazione dell argomento di z. Siano z 1 = z 1 (cos Θ 1 + i sin Θ 1 ) si ha z 2 = z 2 (cos Θ 2 + i sin Θ 2 ), z 1 z 2 = z 1 z 2 (cos(θ 1 + Θ 2 ) + i sin(θ 1 + Θ 2 )), (8) che è ovvia se si considera la genesi che abbiamo presentato del prodotto di numeri complessi, e che comunque si prova facilmente usando le formule del coseno e del seno dell angolo somma. Come caso particolare dalla (8) otteniamo la formula di De Moivre z n = z n (cos(nθ) + i sin(nθ)). (9) OSSERVAZIONE. Nella formula di De Moivre col simoblo nθ intendiamo Θ Θ, n volte, e qunindi nθ = {nθ + 2kπ} k Z e non nθ = {nθ + 2knπ} k Z. La formula di De Moivre permette di risolvere in C l equazione z n = w (10) 8

9 Per w 0, sia con Φ = {φ + 2kπ} k Z, e sia w = w (cos Φ + i sin Φ), z = z (cos Θ + i sin Θ), con Θ = {θ + 2kπ} k Z una soluzione di (10). Abbiamo w = z n, Φ = nθ. Da cui segue subito che z = w 1 n, ma non possiamo scrivere Θ = Φ n, per l osservazione precedente. In effetti da (10) segue { z = w 1 n φ Φ, θ Θ, k Z : φ = nθ + 2kπ ovvero { z = w 1 n Pertanto k Z, in numeri ( w 1 n cos φ Φ, θ Θ, k Z : θ = φ n + 2kπ n ( φ n + 2kπ n ) ( φ + i sin n + 2kπ )) n sono soluzioni della (10) ma non ho infinite soluzione diverse, potendo i numeri φ n + 2kπ n rappresentare diverse determinazioni dello stesso angolo. Sia φ Φ, poniamo θ 0 = φ n θ 1 = φ n + 2π n θ 2 = φ n + 2 2π n.. θ n 1 = φ n + (n 1) 2π n a cui corrispondono gli angoli le cui misure sono Θ 0 = { φ n + 2kπ} k Z Θ 1 = { φ n + 2π n + 2kπ} k Z Θ 2 = { φ n + 2 2π n + 2kπ} k Z.. Θ n 1 = { φ n + (n 1) 2π n + 2kπ} k Z; il numero φ n + n 2π n = φ n + 2π appartiene a Θ 0 e non da luogo a una diversa soluzione dell equazione (10). Pertanto, se w 0, l equazione (10) ha n distinte soluzioni ed esse sono date da 9 9 nella formula che segue al posto di Θ 0, Θ 1... potremmo scrivere anche θ 0, θ

10 z 0 = w 1 n (cos(θ 0 ) + i sin(θ 0 )) z 1 = w 1 n (cos(θ 1 ) + i sin(θ 1 )) z 2 = w 1 n (cos(θ 2 ) + i sin(θ 2 )).. z n 1 = w 1 n (cos(θ n 1 ) + i sin(θ n 1 )) Infine, se w = 0, la (10) ha la sola soluzione nulla. Esempio Per trovare le soluzioni dell equazione z 3 = 2, dobbiamo rappresentare in modo trigonometrico il numero complesso 2: pertanto le tre radici cubiche di 2 sono 2 = 2(cos(0) + i sin(0)) z 0 = (cos(0) + i sin(0)) = z 1 = (cos( 2π 3 ) + i sin( 2π 3 )) = ( i 3 2 ) z 2 = (cos( 4π 3 ) + i sin( 4π 3 )) = ( 1 2 i 3 2 ) Esempio Per trovare le soluzioni dell equazione z 4 = 4, dobbiamo rappresentare in modo trigonometrico il numero complesso -4: 4 = 4(cos(π) + i sin(π)) pertanto le quattro radici quarte di -4 sono z 0 = (cos( π 4 ) + i sin( π 4 )) = ( i ) = 1 + i z 1 = (cos( π 4 + π 2 ) + i sin( π 4 + π 2 )) = ( i ) = 1 + i z 2 = (cos( π 4 + π) + i sin( π 4 + π)) = ( i ) = 1 i z 3 = (cos( π 4 + 3π 2 ) + i sin( π 4 + 3π 2 )) = ( i ) = 1 i Esempio Per trovare le soluzioni dell equazione z 2 = i, dobbiamo rappresentare in modo trigonometrico il numero complesso i: i = (cos( 3π 2 ) + i sin(3π 2 )) pertanto le due radici quadrate di -i sono z 0 = (cos( 3π 4 ) + i sin( 3π 4 )) = ( i ) = 2 2 ( 1 + i) z 1 = (cos( 3π 4 + π) + i sin( 3π 4 + π)) = ( i ) = 2 2 (1 i) La formula di De Moivre (9) ci ha permesso di trovare le soluzioni di alcune semplici equazioni polinomiali, ma non esiste una formula che utilizzi solo le quattro operazioni e le estrazioni di radici, tipo quella di Cardano (2) che dia le soluzioni della generica equazione polinomiale, quando il grado è maggiore 10

11 di 4. Ciononostante, il seguente teorema, così importante da essere chiamato teorema fondamentale dell algebra, assicura che almeno una soluzione esiste. Teorema (fondamentale dell algebra) Ogni polinomio in una variabile, a coefficienti complessi, non costante, ha almeno una radice 10 in C. Le dimostrazioni puramente algebriche di questa teorema sono molto complesse; altre più abbordabili fanno uso di strumenti di analisi matematica. Un polinomio in una variabile si dice monico se il coefficiente del termine di grado massimo è 1. Se un polinomio p(z) ha una radice z 0, allora è divisibile per (z z 0 ) e, ripetendo la divisione n volte, otteniamo il seguente Corollario Ogni polinomio, in C, non costante, di grado n, si fattorizza nel prodotto di una costante e di n fattori di primo grado monici. Ogni polinomio a coefficienti reali è anche un polinomio a coefficienti complessi, e come tale ammette radici complesse. Proposizione 1.1 Sia p(x) un polinomio a coefficienti reali. Se w è una radice di p(x) anche w lo è. Dim. Sia p(x) = a n x n + a n 1 x n a 1 x + a 0. Se w è radice abbiamo coniugando ambo i membri, abbiamo a n w n + a n 1 w n a 1 w + a 0 = 0, a n w n + a n 1 w n a 1 w + a 0 = 0 = 0, da cui, considerate le proprietà della funzione coniugio e tenendo presente che i coefficienti sono reali, cioè p( w) = 0. a n w n + a n 1 w n a 1 w + a 0 = 0, Corollario Ogni polinomio a coefficienti reali di grado dispari ha almeno una radice reale. 1.6 Spazi vettoriali reali e spazi vettoriali complessi Abbiamo già osservato che C è uno spazio vettoriale sul campo R di dimensione 2, essendo {1, i} una base. C è anche uno spazio vettoriale sul campo C, e in questo caso la sua dimensione è 1, essendo ogni numero complesso non nullo una sua base. Uno spazio vettoriale V su C è anche uno spazio vettoriale su R, in quanto, essendo definito il prodotto di un vettore per un numero complesso, è definito anche il prodotto di un vettore per un numero reale poiché questo è un particolare numero complesso. Indichiamo con V R l insieme V munito della sola struttura di spazio vettoriale reale. 10 cioè un numero complesso dove il polinomio vale 0, per questo la radice di un polinomio si dice anche uno zero del polinomio 11

12 Proposizione 1.2 Sia V uno spazio vettoriale su C. Se dim(v ) = n, allora dim(v R ) = 2n. Dim. Sia V = {v 1,..., v n } una base su C di V. Allora V R = {v 1,..., v n, iv 1,..., iv n } è una base di V su R. Infatti, essendo V una base su C, abbiamo che ogni vettore w si scrive w = z 1 v z n v n = (x 1 + iy 1 )v (x n + iy n )v n = x 1 v x n v n + y 1 iv y n iv n. e quindi V R è un sistema di generatori su R di V. D altra parte, se a 1 v a n v n + b 1 iv b n iv n = 0 è una combinazione lineare nulla degli elementi di V R, allora (a 1 + ib 1 )v (a n + ib n )v n = 0, è una combinazione lineare a coefficienti complessi nulla dei vettori della base V; pertanto (a 1 + ib 1 ) =... = (a n + ib n ) = 0 da cui a 1 =... = a n = b 1 =... = b n = 0. Sia ora V uno spazio vettoriale reale di dimensione n, possiamo dare a V V una struttura di spazio vettoriale complesso 11. Questo spazio si chiama il complessificato di V e lo indichiamo con V C. Le operazioni di somma e prodotto per uno scalare in V C sono definnite da (v 1, v 2 ) + (w 1, w 2 ) := (v 1 + w 1, v 2 + w 2 ) (x + iy)(v 1, v 2 ) := (xv 1 yv 2, yv 1 + xv 2 ) Le verifiche delle proprietà sono di routine. Per quanto già visto all inizio del paragrafo, V C ha anche una struttura di spazio vettoriale reale, che coincide con quella di V V. Possiamo definire un applicazione iniettiva da V in V C, che è lineare come applicazione fra spazi vettoriali reali (verifiche banali), nel seguente modo J : V V C v (v, 0) Abbiamo (v 1, v 2 ) = (v 1, 0) + i(v 2, 0), per cui, se identifichiamo v con (v, 0), (operazione legittimata dal fatto che J è lineare e iniettiva) possiamo scrivere (v 1, v 2 ) = v 1 + iv V V ha in maniera naturale una struttura di spazio vettoriale reale di dimensione 2n. 12

13 Proposizione 1.3 Se dim(v ) = n, allora dim V C = n. Dim. Basta provare che, sotto l identificazione J, una base di V è anche una base di V C. Sia dunque V = {v 1,..., v n } una base di V ; sia (v, w) C; abbiamo v = a 1 v a n v n da cui w = b 1 v b n v n (v, w) = v + iw = a 1 v a n v n + i(b 1 v b n v n ) = (a 1 + ib 1 )v (a n + ib n )v n, pertanto V = {v 1,..., v n } è un sistema di generatori di V C. Sia ora (a 1 + ib 1 )v (a n + ib n )v n = 0 una combinazione lineare nulla dei vettori di V, abbiamo da cui (a 1 v a n v n, b 1 v b n v n ) = a 1 v a n v n + i(b 1 v b n v n ) = (a 1 + ib 1 )v (a n + ib n )v n = 0 = (0, 0) a 1 v a n v n = b 1 v b n v n = 0 e, essendo {v 1,..., v n } linearmente indipendenti in V, concludiamo che a 1 =... = a n = b 1 =... = b n = 0 e che {v 1,..., v n } sono linearmente indipendenti in V C. 1.7 Applicazioni lineari e matrici Sia F : V W un applicazione C-lineare fra spazi vettoriali complessi di dimensione n e m. Siano V = {v 1,..., v n }, W = {w 1,..., w m }, basi di V e W rispettivamente. Come è noto a F possiamo associare una matrice m n, M W,V (F ), sinteticamente definita dalla relazione F (V) = WM W,V (F ). M W,V (F ) = (α ij ) è una matrice a elementi complessi. Essa può essere scritta come A+iB, dove gli elementi di A = (a ij ) e B = (b ij ) sono, rispettivamente, le parti reali e le parti immaginarie degli elementi di M W,V (F ), cioè α ij = a ij +ib ij. 13

14 Nel paragrafo precedente abbiamo visto che V e W, sono anche spazi vettoriali reali di dimensione 2n e 2m; per distinguerli li abbiamo chiamati V R e W R. F è anche un applicazione R-lineare da V R a W R. Siano V R e W R le basi di V R e W R precedentemente definite. Vogliamo calcolare M WR,V R (F ). Le colonne di M WR,V R (F ), sono rappresentate dalle componenti dei vettori F (v 1 ),..., F (v n ), F (iv 1 ),..., if (v n ), rispetto a W R = {w 1,..., w m, iw 1,..., iw m }. Abbiamo e m m m m m F (v j ) = α ij w i = a ij w i + i b ij w i = a ij w i + b ij iw i i=1 i=1 i=1 m m m m m F (iv j ) = if (v j ) = i α ij w i = ia ij w i b ij w i = a ij iw i b ij w i, i=1 i=1 i=1 i=1 da cui la matrice cercata, è rappresentata a blocchi da ( ) A B M WR,V R (F ) =. B A Sia ora F : V W un applicazione lineare fra spazi vettoriali reali di dimensione n e m e siano V = {v 1,..., v n }, W = {w 1,..., w m }, basi di V e W, rispettivamente. Possiamo estendere F a un applicazione F C : V C W C, per linearità, utilizzando il fatto che le basi V e W di di V e W sono anche basi di V C e W C, e dunque la F C è definita sui vettori di una base di V. F C si chiama la complessificata dell applicazione F. Essendo F C (v j ) = F (v j ), abbiamo che M W,V (F C ) = M W,V (F ). Osservazione Capiterà, qualche volta, di considerare le radici complesse ( e non reali) del polinomio caratteristico di un operatore T su uno spazio vettoriale reale; questi numeri sono autovalori dell operatore complessificato T C ; i rispettivi autovettori saranno combinazioni lineari a coefficienti complessi dei vettori della base di V e come tali elementi di V C. i=1 i=1 i=1 14

15 2 Complementi di teoria degli operatori Richiamiamo le proprietà sulla diagonalizzazione degli operatori. Sia V uno spazio vettoriale 12 su K di dimensione finita, V = {v 1,..., v n } una base di V e T : V V un operatore lineare. Indichiamo con M VV (T ), la matrice associata a T rispetto alla base V. Ricordo che le sue colonne rappresentano, nell ordine, le componenti dei trasformati dei vettori della base V rispetto alla stessa base V. Tale proprietà può essere scritta, in notazione matriciale T (V) = VM VV (T ). Se v = x 1 v x n v n = Vx, con x = x 1. x n abbiamo T (v) = T (Vx) = T (V)x = VM VV (T )x, da cui se poniamo T (v) =: Vy, ne segue che y = M VV (T )x che possiamo considerare la rappresentazione in coordinate dell operatore T. L operatore T si dice diagonalizzabile se esiste una base W per cui M WW (T ) è diagonale, questo accade se e soltanto se esiste una base di autovettori 13. Ricordiamo che due matrici A, B M nn (K) si dicono simili se esiste G GL n (K) tale che B = G 1 AG. Essendo M VV (T ) = M 1 WV (Id)M WW(T )M WV (Id), dove M WV (Id) è la matrice cambiamento di base, abbiamo che T è diagonalizzabile se e solo se M VV (T ) è simile a una matrice diagonale. La procedura per determinare se T è diagonalizzabile prevede di calcolare, in primo luogo gli autovalori di T (che coincidono, qualunque sia la base V, con gli autovalori di M VV (T )), tramite la ricerca delle radici del polinomio caratteristico P T (λ) = det(m VV (T ) λi). λ è un autovalore se e solo se è radice del polinomio caratteristico. Per ogni autovalore λ, si definisce l autospazio V λ, come l insieme degli autovettori associati a λ con l aggiunto del vettore nullo; si definisce poi la molteplicità geometrica di λ come la dimensione di V λ. Il criterio di diagonalizzabilità stabilisce che T è diagonalizzabile se e solo se la somma delle molteplicità geometriche degli autovalori di T è uguale alla dimensione di V. Infine è da segnalare che la molteplicità geometrica di un autovalore λ è sempre minore o uguale della molteplicità algebrica di λ, cioè dell esponente con cui si trova il fattore λ λ nella decomposizione in fattori irriducibili del polinomio caratteristico P T (λ). 12 indichiamo genericamente con K un campo, nel nostro corso K è sempre R o C 13 ricordo che un vettore x non nullo si dice un autovettore relativo all autovalore λ K, se T (x) = λx. 15

16 2.1 Classificazione di matrici, operatori, applicazioni lineari La relazione di similitudine fra matrici quadrate è di equivalenza. I matematici si pongono, dunque, il problema di classificare le matrici modulo la relazione di similitudine, cioè classificare le classi di equivalenza. Se T è un operatore e A = M WW (T ) è la matrice associata a T rispetto la base W, allora la classe di equivalenza di A rappresenta l insieme delle matrici con cui possiamo vedere rappresentato T rispetto basi diverse. Infatti, sia B simile a A, esiste quindi G GL n (K) tale che Poniamo B = G 1 AG. V = WG, abbiamo che V è una base di V e G = M WV (Id), per cui B = M 1 WV (Id)M WW(T )M WV (Id) = M VV (T ). Questo non è il solo motivo per cui è importante classificare le matrici modulo similitudine. La classificazione delle matrici modulo similitudine permette anche di classificare gli operatori modulo automorfismi. Vediamo cosa si intende con questa affermazione. Siano T e F due operatori sullo spazio vettoriale V. Supponiamo che esista un automorfismo 14 su V, φ, tale che φ F = T φ. (11) È facile vedere che questa è una relazione di equivalenza fra operatori: si suole dire che F e T sono equivalenti modulo automorfismi. Quando F e T sono equivalenti modulo automorfismi, allora hanno le stesse proprietà algebriche, per esempio hanno lo stesso rango, stessi autovalori, stesse molteplicità algebriche e geometriche; inoltre se W = ker(f ) allora φ(w ) = ker(t ) e in generale tramite φ o φ 1 è possibile passare da sottospazi significativi per T agli analoghi sottospazi per F. Da (11) segue F = φ 1 T φ che in coordinate, rispetto a una base a una base V, di V, si rappresenta M VV (F ) = M 1 VV (φ)m VV(T )M VV (φ), per cui matrici associate, rispetto la stessa base, a operatori equivalenti sono simili. Viceversa, sia la matrice A simile a M VV (T ), esiste quindi G GL(K) tale che A = G 1 M VV (T )G. Sia φ : V V definita 15 da φ(v) = VG, 14 un operatore su V invertibile 15 un applicazione lineare è definita quando siano dati i suoi valori sui vettori di una base 16

17 abbiamo che φ è invertibile e M VV (φ) = G, per cui, posto F := φ 1 T φ, abbiamo che F è equivalente a T modulo automorfismi e M VV (F ) = M 1 VV (φ)m VV(T )M VV (φ) = G 1 M VV (T )G = A. Concludendo possiamo affermare che la classe di equivalenza di matrici quadrate rispetto la relazione di similitudine rappresenta l insieme delle matrici associate,rispetto a una stessa base, a una classe di operatori equivalenti modulo automorfismi. Pertanto la classificazione delle matrici modulo similitudine permette anche di classificare gli operatori modulo automorfismi. Il modo più semplice per classificare un insieme di classi di equivalenza è quello di individuare all interno di ogni classe un suo elemento 16 con caratteristiche specifiche che verrà chiamata forma canonica. La teoria della diagonalizzazione degli operatori (o delle matrici) permette di classificare gli operatori diagonalizzabili. Abbiamo infatti che Proposizione 2.1 Due matrici diagonali sono simili se e solo se sulla diagonale troviamo gli stessi elementi e con la stessa molteplicità, disposti eventualmente in ordine diverso. Dim. Se le matrici diagonali A e B sono simili, allora hanno lo stesso polinomio caratteristico, quindi gli stessi autovalori con le stesse molteplicità algebriche. Poiché gli elementi della diagonale di una matrice diagonale sono gli autovalori della matrice ripetuti tante volte quanto è la loro molteplicità algebrica, e gli autovalori con le loro molteplicità sono invarianti per similitudine, A e B hanno sulla diagonale gli stessi numeri (e, se ripetuti, li incontriamo lo stesso numero di volte, salvo in un diverso ordine). Viceversa proviamo che due matrici diagonali con diagonali uguali, salvo l ordine degli elementi, sono simili. Poiché ogni permutazione dell ordine degli elementi della diagonale può essere ottenuta con una sequenza di scambi, possiamo limitarci a considerare a due matrici diagonali A e B che differiscono solo per lo scambio di due elementi sulla diagonale. Siano A = a a a B = a a a a n a n Sia inoltre C ottenta dalla matrice unità cambiando le prime due colonne, 16 o un limitato gruppo di elementi 17

18 cioè C = Abbiamo che C è ortogonale e quindi C 1 = C t = C e facilmente si verifica che A = C 1 BC. Prima di progredire nello studio che ci porterà a classificare tutte le matrici modulo similitudine, osserviamo come l analogo problema di classificazione delle applicazioni lineari fra due spazi vettoriali diversi, modulo automorfismi dei due spazi vettoriali, sia semplice. Questa classificazione è conseguenza del seguente, importante teorema Proposizione 2.2 (teorema nullità + rango 17 ) Sia F : V W un applicazione lineare. Abbiamo che dim(ker F ) + dim(f (V )) = dim V Dim. Sia {v 1,..., v s } una base di ker(f ) e completiamola a una base di V, V = {v 1,..., v s, v s+1,..., v n }. Se proviamo che {F (v s+1 ),..., F (v n )} è una base di F (V ) abbbiamo provato il teorema. span{f (v s+1 ),..., F (v n )} = F (V ). Sia w F (V ), esiste v V tale che F (v) = w. v = a 1 v a s v s + a s+1 v s a n v n, quindi, per la linearità di F, e poiché i primi s vettori di V stanno in ker(f ), w = F (v) = a 1 F (v 1 ) a s F (v s ) + a s+1 F (v s+1 ) a n F (v n ) = a s+1 F (v s+1 ) a n F (v n ). {F (v s+1 ),..., F (v n )} sono linearmente indipendenti. 17 si dice nullità la dimensione del nucleo di un applicazione lineare, si dice rango la dimensione dell immagine 18

19 Sia a s+1 F (v s+1 ) a n F (v n ) = 0, una combinazione lineare nulla. Abbiamo 0 = a s+1 F (v s+1 ) a n F (v n ) = F (a s+1 v s a n v n ). Per cui a s+1 v s a n v n ker(f );questo vettore è quindi combinazione lineare dei vettori della base di ker(f ). Esistono a 1,..., a s tali che a s+1 v s a n v n = a 1 v a s v s, e pertanto a 1 v 1... a s v s + a s+1 v s a n v n = 0 rappresenta una combinazione lineare nulla dei vettori della base di V. Ne segue che tutti i coefficenti e in particolare a s a n sono nulli. Vediamo come utilizzare la dimostrazione del teorema per classificare le applicazioni lineari fra due spazi vettoriali diversi modulo automorfismi. Completiamo la base {F (v s+1 ),..., F (v n )} di F(V) in una base W di W, aggiundendo opportunamente k vettori, w 1,..., w k, con k = m (n s). W = {F (v s+1 ),..., F (v n ), w 1,..., w k }. La matrice associata a F rispetto le basi V e W è M WV (F ) = = ( 0 Ir 0 0 dove I r è la matrice unità di dimensione uguale al rango di F. Poiché due matrici che rappresentano la stessa applicazione lineare rispetto a basi diverse hanno lo stesso rango, possiamo concludere che troviamo nella classe di equivalenza di un applicazione lineare F fra spazi diversi modulo automorfismi (dello spazio di partenza e di arrivo), tutte e sole le applicazioni che hanno lo stesso rango di F. Quindi il rango classifica le applicazioni lineari. ) 19

20 2.2 Triangolarizzazione degli operatori Il fatto fondamentale che distingue la teoria degli operatori in campo comlesso da quella in campo reale è che in C un operatore ha sempre almeno un autovalore, perché il polinomio caratteristico ha almeno una radice. Definizione 2.1 Una matrice quadrata A = (a ij ) si dice triagolare superiore se a ij = 0 per i > j. Proposizione 2.3 Ogni operatore T su uno spazio vettoriale complesso V è triangolarizzabile, cioè esiste una base V per cui la matrice associata M VV (T ) è triangolare superiore. Dim. La dimostrazione è per induzione sulla dimensione di V. Per gli spazi di dimensione 1 la proposizione è banale. Assumiamo che ogni operatore su uno spazio vettoriale complesso di dimensione n 1 sia triangolarizzabile. Sia λ 1 un autovalore di T (esiste perchè siamo su uno spazio vettoriale complesso) e sia v 1 un suo autovettore. Completiamo v 1 fino a una base di V. Sia questa V = {v 1, v 2,..., v n }. La matrice associata a T, rispetto alla base V, ha la forma M VV (T ) = λ 1 a a 1n 0 a a 2n a n2... a nn = ( λ1 B 0 A Sia W = span{v 2,..., v n }. Sia P la proiezione da V in W definita da ). P : V W v = a 1 v 1 + a 2 v a n v n a 2 v a n v n L applicazione 18 P T W : W W è un operatore su uno spazio vettoriale di dimensione n 1, che rispetto alla base {v 2,..., v n } di W ha, come matrice associata, la matrice A. Per ipotesi induttiva esiste una base W = {w 2,..., w n } di W, rispetto la quale la matrice associata a T, M WW (P T W ), è triangolare superiore. U = {v 1, w 2,..., w n } è una base di V e la matrice assocata a T rispetto U è ( ) λ1 D M UU (T ) = 0 M WW (P T W ) dove D è un non precisato vettore riga, infatti tutte le componenti, esclusa la prima, dei vettori T (w 2 ),..., T (w n ), rispetto alla base U, sono uguali alle componenti dei vettori P T W (w 2 ),..., P T W (w n ), rispetto alla base W. M UU (T ) è triangolare superiore. 18 cont W intendiamo la restrizione di T al sottospazio W 20

21 Definizione 2.2 Sia T un operatore su uno spazio vettoriale reale o complesso, definiamo spettro di T l insieme delle radici complesse del polinomio caratteristico. Per un operatore T su uno spazio vettoriale reale V, lo spettro 19 coincide con l insieme degli degli autovalori dell estensione T C di T al complessificato V C. Si osservi che la proposizione (2.3) non è vera in campo reale, in quanto ogni operatore triangolarizzabile ha almeno un autovettore (il primo vettore di una base che lo triangolarizza), mentre esistono operatori privi di autovettori, quali, ad esempio, le rotazioni nello spazio vettoriale VO 2, di angolo diverso da 0 e π. Comunque vale la seguente Proposizione 2.4 Un operatore T su uno spazio vettoriale reale V, con lo spettro tutto reale, è triangolarizzabile. la cui dimostrazione è simile alla precedente, poiché nella prova è intervenuta l ipotesi che il campo sia complesso, solo per provare l esistenza di un autovettore. Bisogna osservare anche che, se T ha lo spettro tutto reale, pure P T W ha lo spettro tutto reale. 2.3 Somma e somma diretta di sottospazi Definizione 2.3 Siano U e W due sottospazi dello spazio vettoriale V, l insieme U + W := {v V v = u + w, u U w W } si dice la somma di U e W. È facile provare che U+W è un sottospazio vettoriale di V. Anche l intersezione dei due sottospazi, U W, è un sossospazio vettoriale di V. Il seguente teorema lega la dimensione della somma di sue sottospazi con la dimensione della loro intersezione. Proposizione 2.5 (teorema di Grassmann) Siano U e W due sottospazi vettoriali di V, abbiamo dim U + dim W = dim(u W ) + dim(u + W ). Dim. Siano {v 1,..., v r } una base di U W. U W è, sia un sottospazio di U, sia un sottospazio di W. Completiamo la base di U W fino a ottenere basi di U e di W. Siano rispettivamente {v 1,..., v r, u 1,..., u s } una base di U, {v 1,..., v r, w 1,..., w t } una base di W. Abbiamo che dim U = r + s, dim W = 19 alcuni autori intendono con spettro di un operatore reale l insieme delle radici reali del polinomio caratteristico 21

22 r + t. Ci basta provare che dim(u + W ) = r + s + t, per poter concludere di aver dimostrato il teorema. Proviamo quindi che è una base di U + W. {v 1,..., v r, u 1,..., u s, w 1,..., w t } span{v 1,..., v r, u 1,..., u s, w 1,..., w t } = U + W. Sia u + w un generico vettore di U + W. segue u = a 1 v a r v r + b 1 u b s u s w = c 1 v c r v r + d 1 w d t w t. u+w = (a 1 +c 1 )v (a r +c r )v r +b 1 u b s u s +d 1 w d t w t. v 1,..., v r, u 1,..., u s, w 1,..., w t sono linearmente indipendenti. Sia a 1 v a r v r + b 1 u b s u s + c 1 w c t w t = 0 (12) una loro combinazione lineare nulla. Il vettore w := c 1 w c t w t appartiene a W, ma appartiene anche a U, perché w = (a 1 v a r v r + b 1 u b s u s ) U, quindi w U W. Pertanto w U W e quindi w = d 1 v d r v r e sostituendo in (12) otteniamo (a 1 + d 1 )v (a r + d r )v r + b 1 u b s u s = 0, che, essendo una combinazione lineare dei vettori della base di U, può essere nulla solo se (a 1 + d 1 ) =... = (a r + d r ) = b 1 =... = b s = 0. Utilizziamo il fatto che b 1 =... = b s = 0 nella (12); otteniamo a 1 v a r v r + c 1 w c s w t = 0, che, essendo una combinazione lineare dei vettori di una base di W, può essere nulla solo se a 1 =... = a r = c 1 =... = c r = 0. Dunque i coefficienti della (12) sono necessariamente tutti nulli. 22

23 Definizione 2.4 La somma di due sottospazi U e W dello spazio vettoriale V si dice diretta se U W = {0}; in tal caso la somma si scrive U W Per il teorema di Grassmann dim(u W ) = dim U + dim W. Vale la seguente Proposizione 2.6 Ogni vettore v U W si scrive in uno e un sol modo come somma, v = u + w, di un vettore u U e di un vettore w W. Dim. Supponiamo che il vettore v U W si possa scrivere in due modi come somma di un vettore che sta in U e un vettore che sta in W. v = u 1 + w 1 = u 2 + w 2, u 1, u 2 U, w 1, w 2 W ; abbiamo che il vettore u 1 u 2 = w 2 w 1 appartiene sia a U che a W. Dunque u 1 u 2 = w 2 w 1 = 0, perché U W = {0}. Da qui u 1 = u 2 e w 1 = w 2. La definizione di somma diretta si estende al caso della sommna di un numero finito di sottospazi nel modo seguente Definizione 2.5 La somma dei sottospazi W 1,..., W r si dice diretta (e si scrive W 1... W r ) se ogni vettore v W W r è somma in uno e un sol modo di r vettori, v 1,..., v r, con v 1 W 1,..., v r W r. Proposizione 2.7 dim(w 1... W r ) = dim W dim W r Dim. Siano W 1... W r r basi, rispettivamente di W 1,..., W r. La loro unione, W, è una base di W 1... W r, infatti W genera W 1... W r perché ogni vettore di W 1... W r è somma di r vettori, w 1 W 1,..., w r W r, ciascuno dei quali è combinazione lineare dei vettori delle basi dei rispettivi spazi. W è un insieme di vettori linearmente indipendenti, perché, se vi fosse una combinazione lineare non banale dei vettori di W, avremmo che il vettore nullo, oltre a scriversi come si scrive anche in un modo diverso come somma di r vettori, w 1 W 1,..., w r W r. 2.4 I teorema di riduzione Definizione 2.6 Sia T un operatore sullo spazio vettoriale V. Un sottospazio W, di V, si dice T -invariante (o invariante per T o anche T-stabile) se T (W ) W. 23

24 Se T è diagonalizzabile e V = {v 1,..., v n } è una base che diagonalizza T allora span{v 1 },..., span{v n } sono spazi T -invarianti e V = span{v 1 }... span{v n }, anzi è facile vedere che T è diagonalizzabile se e solo se V è somma diretta di n sottospazi T -invarianti di dimensione 1. È pertanto naturale ricercare per gli operatori non diagonalizzabili la decomposizione di V in una somma diretta con il maggior numero di sottospazi T -invarianti. Con questo obiettivo in mente, introciamo la seguente: Definizione 2.7 Sia λ un autovalore di T, v V si dice una radice per T di ordine m relativa all autovalore λ, se (T λid) m (v) = 0 e m è il più piccolo numero naturale per cui vale tale proprietà. Gli autovalori sono radici di ordine 1. Proposizione 2.8 L insieme delle radici di T relative all autovalore λ è un sottospazio vettoriale che indichiamo con R(T, λ). Dim. Sia v R(T, λ); esiste m N tale che (T λid) m (v) = 0; ne segue che (T λid) m (kv) = k(t λid) m (v) = 0, dunque kv R(T, λ). Siano v 1, v 2 R(T, λ); esistono m 1, m 2 N tali che (T λid) m1 (v 1 ) = 0 e (T λid) m2 (v 2 ) = 0; ne segue (T λid) max(m1,m2) (v 1 + v 2 ) = (T λid) max(m1,m2) (v 1 ) + (T λid) max(m1,m2) (v 2 ) = 0 Proposizione 2.9 R(T, λ) è T -invariante. Dim. Sia v R(T, λ). Esiste m N tale che (T λid) m (v) = 0. Anche (T λid) m+1 (v) = 0. Quindi 0 = (T λid) m+1 (v) = (T λid) m ((T λid)(v)) = (T λid) m (T (v) λv) = (T λid) m (T (v)) λ(t λid) m (v) = Quindi anche T (v) è una radice relativa a λ. Teorema (I Teorema di riduzione) (T λid) m (T (v)). 24

25 Sia T : V V un operatore sullo spazio vettoriale complesso di dimensione finita V. Siano λ 1,..., λ k i suoi autovalori. Allora V = R(T, λ 1 )... R(T, λ k ) Omettiamo la dimostrazione del teorema 20, ma cerchiamo di saperne di più sul sottospazio delle radici. T R(T,λ) ha il solo autovalore λ, perché se avesse anche un diverso autovalore µ, un autovettore di T R(T,λ) relativo a µ, sarebbe anche autovettore di T e quindi apparterrebbe a R(T, µ) contro al fatto che R(T, λ) R(T, µ) = 0. Ne segue che la dimensione di R(T, λ) è uguale alla molteplicità algebrica di λ. Consideriamo una base V λ di R(T, λ) che triangolarizza T R(T,λ) ; sulla diagonale di M Vλ V λ (T R(T,λ) ) troviamo gli autovalori, pertanto λ a a 1n 0 λ... a 2n M Vλ V λ (T R(T,λ) ) = λ Poiché ogni sottospazio è Id-invariante, abbiamo Proposizione 2.10 R(T, λ) è (T µid)-invariante, qualunque sia µ, in particolare è (T λid)-invariante. Rispetto la base V λ indicata sopra abbiamo λ µ a a 1n 0 λ µ... a 2n M Vλ V λ ((T µid) R(T,λ) ) = λ µ Definizione 2.8 Un operatore T su V si dice nilpotente se esiste m N tale che T m = 0 ( cioè T m (v) = 0 per ogni v V ); si dice nilpotente di ordine m se m è il più piccolo indice tale che T m = 0. Proposizione 2.11 Sia λ un autovalore dell operatore T sullo spazio di dimensione finita V. (T λid) R(T,λ) : R(T, λ) R(T, λ) è nilpotente. Dim. Rispetto alla base V λ di R(T, λ), che triangolarizza (T λid), 0 a a 1n 0 0 a a 2n M Vλ V λ ((T λid) R(T,λ) ) = a n 1 n può essere trovata sul libro di Ciliberto Algebra lineare, oppure sulle vecchie note del Corso di Complementi di Algebra lineare 25

26 è una matrice triangolare superiore con diagonale principale nulla. Il quadrato di questa matrice ha nulla anche la diagonale immediatamente a destra della diagonale principale: (M Vλ V λ ((T λid) R(T,λ) )) 2 = , dove al posto degli vi sono numeri non meglio precisati. Ogni successiva potenza determina un ulteriore diagonale nulla, per cui (T λid) R(T,λ) è nilpotente e l ordine di nilpotenza è, al più, uguale alla molteplicità algebrica di λ. Osserviamo che l ordine di nilpotenza di (T λid) R(T,λ) è uguale al più piccolo m tale che ker(t λid) m+1 = ker(t λid) m. Ciò deriva dal fatto che, se ker(t λid) m+1 = ker(t λid) m allora per ogni k N ker(t λid) m+k = ker(t λid) m ; infatti sia v ker(t λid) m+k, abbiamo 0 = (T λid) m+k (v) = (T λid) m+1 ((T λid) k 1 (v)) = (T λid) m ((T λid) k 1 (v)) = (T λid) m+k 1 (v) Iterando il procedimento k volte, otteniamo (T λid) m (v) = 0, cioè v ker(t λid) m. 2.5 Il II teorema di riduzione Il primo teorema di riduzione mostra una prima decomposizione di V in somma diretta di sottospazi T -invarianti. Dobbiamo chiederci se un sottospazio delle radici possa essere, a sua volta, somma diretta di sottospazi T -invarianti. Un sottospazio W di R(T, λ) è T -invariante se e solo se è (T λid)-invariante. Possiamo quindi limitarci a cercare sottospazi di R(T, λ), (T λid)-invarianti. Il vantaggio sta nel fatto che (T λid) R(T,λ) è un operatore nilpotente. Introduciamo la seguente 26

27 Definizione 2.9 Sia G un operatore sullo spazio vettoriale V di dimensione n, G si dice ciclico se esiste una base, V = {v 1,..., v n }, detta base ciclica, tale che G(v 1 ) = 0 G(v 2 ) = v 1. G(v n ) = v n 1 È immediato verificare che ogni operatore ciclico è nilpotente. La matrice associata all operatore ciclico G rispetto una base ciclica ha la forma J n := è il solo autovalore di un operatore ciclico G, con molteplicità algebrica n e molteplicità geometrica 1. Pertanto l autospazio relativo all autovalore 0 è span(v 1 ). Per gli operatori nilpotenti vale il II teorema di riduzione, di cui omettiamo la dimostrazione. Teorema (II Teorema di riduzione) Sia G un operatore nilpotente sullo spazio vettoriale V. Esistono sottospazi G-invarianti W 1,..., W k tali che V = W 1... W k e la restrizione, G Wi, di G a ogni sottospazio W i, è un operatore ciclico. Applicando il II teorema di riduzione all operatore (T λid) R(T,λ) : R(T, λ) R(T, λ) e, ricordando che un sottospazio (T λid)-invariante è anche T -invariante, abbiamo che R(T, λ) = W 1... W k, (13) dove i sottospazi W i sono T -invarianti e gli operatori (T λid) Wi sono ciclici. Chiamiamo sottospazio di Jordan relativo all autovalore λ dell operatore T, un sottospazio W V per cui (T λid) W è ciclico, e base di Jordan una base di W ciclica per (T λid) W. Sia V = {v 1,..., v r } una base di Jordan di W. Poiché la matrice associata a (T λid) W è J r =......, (14)

28 la matrice associata a T W rispetto a V è λ λ J r (λ) = (15) λ λ La matrice J r (λ) si chiama blocco di Jordan di ordine r relativo a λ o λ-blocco di Jordan di ordine r. Sia V i = {v i1,..., v ir(i) } una base di Jordan di W i ; dalla (13) segue che k i=1 V i è una base di R(T, λ) e rispetto a questa base l operatore T R(T,λ) è rappresentato da una matrice avente sulla diagonale k blocchi di Jordan. Essa ha la forma r(1) {}}{ r(2) {}}{ λ λ λ λ 0 λ λ λ λ r(k) {}}{ ;... 0 λ λ λ λ dove i singoli blocchi di Jordan hanno ordine uguale alla dimensione dei W i ; nel caso che un blocco abbia dimesione 1 allora è formato dal solo autovalore. Come si vede, si tratta di una matrice con tutti zeri eccetto che sulla diagonale dove troviamo l autovalore λ e sulla prima parallela destra della diagonale dove troviamo una sequenza di 1 e 0, che servono a individuare i blocchi di Jordan. 28

29 2.6 Forma canonica di Jordan Combiniamo il I e il II teorema di riduzione. Per ognuno dei sottospazi delle radici esiste una decomposizione in sottospazi di Jordan, quindi V è somma diretta di sottospazi di Jordan, che ricordo sono T - invarianti. Prendendo una base di Jordan per ciascuno dei sottospazi di Jordan e facendone l unione, ottengo una base W di V, rispetto la quale la matrice associata a T ha lungo la diagonale blocchi di Jordan relativi ai vari autovalori di T. Supponiamo che sia s i il numero dei (λ i )-blocchi di Jordan che trovo sulla diagonale; la matrice associata a T rispetto W può essere schematizzata nella seguente nella matrice a bloccchi, dove i blocchi non rappresentati sono tutti nulli e dove l indice che numera i blocchi di Jordan è indicato fra parentesi per non confonderlo con l indice che mostra (quando è scritto) l ordine del blocco di Jordan. M WW (T ) = J (1) (λ 1 )... J(s1)(λ1) J (1) (λ k )... J(sk)(λk). (16) Definizione 2.10 Una matrice che è nulla, salvo avere lungo la diagonale blocchi di Jordan si dice una forma canonica di Jordan. Da quanto sopra detto abbiamo Proposizione 2.12 Per ogni operatore T su uno spazio vettoriale complesso di dimensione finita esiste una base rispetto la quale la matrice associata è una forma canonica di Jordan Poiché ogni matrice complessa definisce un operatore su C n, vi è un equivalente della proposizione precedente in termini di matrici. Proposizione 2.13 Ogni matrice quadrata complessa è simile in C a una forma canonica di Jordan. Si osservi che i sottospazi delle radici sono univocamente determinati dall operatore T ; non così i sottospazi di Jordan. Se consideriamo ad esempio l operatore nullo su V, questo ha un solo autovalore, lo zero, a cui corrisponde come sottospazio delle radici lo stesso spazio V. Ogni sottospazio di dimensione 1 è un sottospazio di Jordan, ed esistono infinite decomposizioni di V in somma diretta di sottospazi di Jordan. 29

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