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Free ebooks ==> www.ebook777.com www.ebook777.com

Free ebooks ==> www.ebook777.com www.ebook777.com

Free ebooks ==> www.ebook777.com www.ebook777.com Il libro Per parlare seriamente di vino bisogna essere a tavola, perché non si può pensare al vino senza abbinarlo a quello che mangiamo. Questo, dicono gli autori, è il vero senso del vino, il più profondo. Per questo motivo è proprio attorno a un tavolo, molto spesso di un grande ristorante o chef italiano ma anche di una trattoria, oppure nella cucina di casa, davanti al camino che in questo libro venti grandi uomini del vino si incontrano. I protagonisti ci raccontano il loro lavoro e la loro storia, le loro idee e i progetti futuri, assaggiando con gli autori annate importanti e altre meno conosciute insieme a piatti che di volta in volta ne esaltano le caratteristiche. Per scrivere questo libro, infatti, gli autori hanno deciso di entrare in ristoranti prestigiosi e dialogare con produttori, chef, osti storici, per parlare con chi il vino lo ha fatto, ma anche di cucina e di abbinamenti, di quella profonda unione di due cose buone che insieme diventano armonia, perfetto connubio. I venti pranzi sono lo specchio di uomini e di terre, ma sono soprattutto incontri indimenticabili durante i quali nascono racconti sempre legati alla passione per il vino. Venti viaggi dentro la storia e le tradizioni del nostro paese, dal passato al futuro attraverso il presente della realtà produttiva italiana.

Free ebooks ==> www.ebook777.com www.ebook777.com Gli autori Federico Graziani Nato a Ravenna nel 1975 e sommelier professionista a 19 anni, vince il concorso per il miglior sommelier d Italia nel 1998. Dopo esperienze prestigiose in Italia e all estero come Gualtiero Marchesi e The Halkin Hotel, si occupa dell apertura del ristorante Cracco a Milano. È stato successivamente capo sommelier presso Il Luogo di Aimo e Nadia per otto anni e fino al 2014 ne ha curato la particolare carta dei vini. Laureato nel 2007 in Viticoltura ed Enologia a Milano, ha scritto a quattro mani con Marco Pozzali Grandi Vini di piccole cantine nel 2007, premiato a Parigi nella seconda edizione del 2012 come miglior libro del mondo nella categoria Wine Tourism. Ha pubblicato sempre con Marco Pozzali Vini d Autore nel 2008 e Grandi Vini d Italia nel 2013. Dal 2012 lavora come ambasciatore aziendale e responsabile commerciale per un importante azienda vinicola italiana. Nel 2015 ha pubblicato, con Attilio Scienza, e altri, l Atlante geologico dei vini d Italia. Scrive saltuariamente su Intravino di grandi degustazioni e infine custodisce una piccola vigna centenaria sull Etna, da cui ottiene il vino Profumo di Vulcano. Marco Pozzali Nato a Parma nel 1972, è giornalista professionista e sommelier. Per undici anni nel Gruppo Food, è stato caporedattore e condirettore di riviste enogastronomiche a diffusione nazionale come Bar Business, Buon Appetito e Mangiarsano, e ha realizzato gli abbinamenti vinocibo per numerose collane di libri. È Chevalier de l Ordre des Coteaux de Champagne e ha scritto a quattro mani, insieme a Federico Graziani, Grandi Vini di piccole cantine (2007 e una nuova edizione nel 2012), premiato come miglior libro del mondo nella categoria Wine Tourism al Gourmand Cookbook Awards di Parigi nel 2013 e, ancora, Vini d Autore (2008) e Grandi Vini d Italia (2013). Ha anche pubblicato un breve romanzo, Il profumo degli aghi di pino (2009), e L Enciclopedia del Vino (con Luca Gardini e altri, 2012) e realizzato, insieme al regista Luca Mazzieri, curandone l ideazione e la sceneggiatura, un film, Simbiosa. Alle radici del vino. Scrive per riviste di settore italiane e straniere (cartacee e on line) e lavora per una distribuzione di vini francesi in Italia.

Federico Graziani, Marco Pozzali STORIE DI VINO E CUCINA Incontri e racconti a tavola con venti produttori italiani

Gli autori abitualmente degustano nei calici della collezione Supremo di

Nota degli autori Era la fine di settembre dell anno duemila quando ci siamo conosciuti. Nella sede dell Associazione Italiana Sommelier di viale Monza a Milano partecipavamo a una degustazione di passiti del Sud. Faceva ancora molto caldo, eravamo uno di fronte all altro, forse più distratti che attenti e, davanti alle schede di valutazione sensoriale a punteggio che avremmo dovuto stilare di lì a poco, entrambi, con un veloce sorriso, abbiamo capito che non sarebbe mai stato quello il nostro modo di intendere il vino. Da quel giorno fino a oggi abbiamo aperto insieme oltre seimila bottiglie. E poi ci sono le altre bevute da soli, ma anche di quelle abbiamo parlato e ci siamo raccontati, l un l altro. Forse il vino che ricordiamo più volentieri è un Barolo 1971. Era uscito da poco il nostro primo libro Grandi Vini di piccole cantine, nell aprile del 2007 e, all ora del pranzo, in Borgo Copelli, a Parma, una piccola strada che porta al mercato della Ghiaia, seduti nel déhors del Bar Mauro, abbiamo stappato. Come sempre è successo, eravamo a tavola, perché l unico posto in cui il vino deve stare è sulla tavola, insieme al cibo. C erano le polpette al limone e prezzemolo della signora Mirella e i salumi affettati a mano dall oste Maurizio Zanichelli, il salame Felino, stagionato che a pelarlo ti unge le mani, la spalla cruda della Bassa e la micca di pane. Il cielo era terso e luminoso, striato di arancione e il Barolo profumava di mare; scrigno, conchiglia, onda ritornata dopo la marea. Quel giorno già sapevamo che Mario Soldati aveva ragione: Un vino bisogna considerarlo come il volto di una fanciulla, come un tramonto, un paesaggio, un opera d arte, come qualcosa insomma che vive e che fa parte della nostra vita, non come qualcosa staccato da noi Nella descrizione del luogo, della stanza, del pranzo, della compagnia e nella memoria del nostro stato d animo. In fin dei conti, è quello che abbiamo cercato di fare in questo volume.

DI IERI, DI SEMPRE: LA SACRALITÀ

Mauro e Marcello Lunelli, una storia di famiglia Giulio Ferrari, l emblema di un sogno Trento è una bellissima città con le montagne tutte attorno, quasi a cingerla in un abbraccio materno, che si addolciscono in pendii assolati e morbide pianure, la valle dell Adige a farne da tappeto. Ci siamo stati molte volte ma il momento preferito è per noi l autunno inoltrato, per quel clima di raccoglimento, per il primo freddo, per i colori del bosco che già preludono all inverno: i gialli, i rossi, gli arancioni si stanno già attenuando. Il verde è diventato marrone nei profumi di pigna, resina e bacche per preparare il Natale in arrivo. Una fotografia impressa fortemente nella nostra memoria che si lega ad altri ricordi. Una tavola imbandita, il calore degli affetti, la storia dei nostri giorni, un sorriso e uno spumante per brindare. Forse nemmeno perché sia un istante particolare, forse solo per un momento importante e piacevole, insieme. Quell etichetta su campo bianco e la scritta in maiuscolo fa parte di noi. Qualcosa che diventa confidenziale, che si lega alla nostra vita. Madrid, domenica 11 luglio della caldissima estate 1982, la finale con la Germania e Paolo Rossi, il capocannoniere della dodicesima edizione dei Mondiali, che beve a collo da una magnum di Ferrari. Eravamo bambini, allora, ma quell istantanea è un ricordo indelebile per tutti. Come i gran premi di Formula Uno, con Gilles Villeneuve sul podio a festeggiare schizzando il pubblico con la morbida schiuma di bolle. O come i pranzi della domenica, Berlucchi o Ferrari? Ferrari tutta la vita. Noi pensiamo si possa rendere un bel dono alla famiglia Lunelli, rammentare queste immagini che sono diventate immaginario comune. Entrare nelle case della gente per celebrare un momento felice, non solo quella famosa e patinata degli eventi mondani, ma anche la famiglia normale, quella che vuole brindare, festeggiare o semplicemente bere un buon calice. I Lunelli si meritano questo perché fanno da oltre sessant anni un ottimo vino e perché lo fanno con umanità e con dedizione. Così attenti al domani, perché è così presente in loro la traccia del passato, di un passato vivo e vitale, nel ricordo di Bruno, allora titolare di un enoteca a Trento, che nel 1952 acquistò l azienda da Giulio Ferrari. In montagna le tradizioni si trasmettono di generazione in generazione e si

custodiscono gelosamente. Questo si trova stappando una bottiglia di spumante Ferrari: il lavoro dell energica gente trentina, l impronta del passato e la serietà che un azienda moderna deve avere e mantenere alta. Il Trentino e lo spumante conservano un legame molto forte che inizia oltre centodieci anni fa, appunto, con le intuizioni di Giulio Ferrari. Uomo incline ai viaggi, a sedici anni, dopo aver frequentato l Imperial regia scuola agraria di San Michele all Adige, parte per la Francia, va a Montpellier, dove si iscrive alla scuola di vitivinicoltura e dove lavora per un celebre vivaista del luogo. Si specializza poi in zimotecnica, la scienza che studia i lieviti, presso l Institut für Botanik di Geisenheim, sul Reno e, in particolare, lavora a Épernay, culla dello Champagne. Dai suoi viaggi porta con sé qualcosa di prezioso: le barbatelle di uva chardonnay da impiantare a casa, nel suo Trentino. In fin dei conti il clima non è troppo dissimile; caldo di giorno, con una buona escursione termica nella notte e condizioni di ventosità elevata. Caratteristiche adatte a spumantizzare il vino. E così avviene. Il signor Giulio inizia a fare lo Champagne a Trento. Pochissime bottiglie che, però, non tardano a imporsi. Fa riflettere questa considerazione: nel 1952, cinquant anni dopo la nascita della cantina Ferrari, la produzione è di sole 8800 bottiglie che si vendono ancora porta a porta, via per via, campanello per campanello. E questo per deliberata e inossidabile convinzione e volontà del proprietario, refrattario alle lusinghe del mercato e attento esclusivamente alla qualità del prodotto. A settantatré anni Giulio Ferrari, non avendo eredi diretti, deve decidere a chi cedere la sua piccola azienda. Una seconda intuizione lo illumina, cedere a un trentino, una persona conosciuta e stimata, Bruno Lunelli, appunto. Dal 1952, così, prende avvio una vicenda familiare destinata a diventare una delle più importanti realtà imprenditoriali del nostro Paese, un brand internazionale forte e riconosciuto, una storia che è il presente e il futuro della spumantistica internazionale. Basta qualche numero per capire: 60.000 bottiglie prodotte nel 1962, 300.000 nel 1972, 1.500.000 nel 1982, 3.000.000 nel 1992 e 4.100.000 circa oggi. La produzione va di pari passo con l acquisizione di vigneti di proprietà, i più vocati della regione, i più esposti al sole, i più aristocratici con gli storici edifici che includono Villa Margon, Villa San Nicolò, Villa Gentilotti, Maso Le Viane, Maso Montalto, Maso Valli, Maso Orsi e il celebre Maso Pianizza, sulla collina più alta di Trento, da cui si ricava il Giulio Ferrari Riserva. In tutto cento ettari di vigneto, che raddoppiano se si contano quelli che i Lunelli hanno acquisito nel 1999 in Toscana e nel 2000 in Umbria. Un impero commerciale con una sola regola: alti parametri di qualità. La famiglia Lunelli e il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore

Le vicende di questa operosa famiglia trentina toccano tre generazioni. Bruno, che ha acquisito la cantina e il nome Ferrari nel 1952, ha inoltre deciso saggiamente di mantenerlo e di tenere con sé in azienda lo stesso Giulio Ferrari, fino alla sua morte, in una sorta di contratto a vita di consulenza per permettere, così, ai suoi figli Franco, Gino e Mauro di apprendere e conoscere meglio tutte le sfumature della spumantizzazione. Oltre ai tre rampolli di casa, ha altri due figli che non se ne occupano direttamente, Carla e Giorgio. Oggi, la terza generazione è composta da Marcello, figlio di Franco, Matteo figlio di Giorgio, Camilla e Alessandro figli di Mauro. Una vicenda familiare, dunque, che ancora conta sull esperienza dei padri in un continuo confronto con le nuove istanze dei figli. È per questo che al nostro tavolo, abbiamo incontrato con piacere Mauro, il creatore della riserva Giulio Ferrari e storico enologo di casa, con Marcello, oggi vicepresidente e responsabile di produzione. Per noi il Giulio porta con sé l allure del mito e descrivere con le parole quello che noi consideriamo il più rinomato e meritevole degli spumanti italiani rischia di farci cadere in sciocche banalizzazioni. Meglio pensare ai presupposti che lo hanno elevato allo status che oggi gli conviene. L uva chardonnay proviene da una vigna meravigliosa a 550 metri di altitudine, che nel cru di Maso Pianizza ha trovato casa e un ideale microclima per potersi esprimere. E poi c è la conoscenza degli uomini, di Mauro Lunelli in particolare, che ha lavorato profondamente alla valorizzazione del carattere tipico della varietà, rapportandola a un lunghissimo affinamento sui lieviti. Ma c è anche la possibilità commerciale dell azienda di vendere un prodotto a partire dai dieci anni successivi alla vendemmia. Un grande spumante, infatti, non si inventa in pochi istanti: servono ingenti investimenti, cultura, conoscenza e sensibilità. È proprio Mauro, nel 1972, a soli tre anni dal suo ingresso in cantina, a dare forma a un sogno. Forte delle sue esperienze, dei suoi viaggi di studio in Francia, dei suoi continui contatti con le principali Maison di Champagne, Krug su tutti, decide di lavorare con lunghi e lunghissimi affinamenti sui lieviti. Così, all oscuro dai suoi fratelli Franco e Gino, per il timore che non comprendessero la sua visione, proprio nel 1972 apparta e nasconde alcune migliaia di bottiglie di un Ferrari diverso da tutti gli altri. Nel corso degli anni, sempre da solo, nel buio della cantina, assaggia, si convince sempre più di ciò che sta facendo e continua a nascondere bottiglie sui lieviti. È il 1980 quando, senza dare alcuna spiegazione, invita i fratelli a degustare quello spumante. L entusiasmo è travolgente e si decide di mettere in commercio quella straordinaria espressione di complessità e freschezza. Manca il nome: ecco l ulteriore intuizione, dedicarlo a chi, per primo, aveva creduto nelle bollicine a Trento e a chi vent anni prima aveva ceduto loro quel patrimonio di conoscenze,

Giulio Ferrari. Prodotto in numeri assai limitati e solo nelle annate idonee è cresciuto nel tempo: dalle 5000 prodotte negli anni settanta, alle 20.000 degli anni ottanta, fino alle 40.000 di oggi. Se rapportate alla produzione totale della casa spumantistica trentina, sono una vera esiguità e mantengono quel raffinato cesello artigianale che le distingue profondamente da tutti gli altri Metodo Classico italiani. Locanda Margon La Locanda Margon è il ristorante di proprietà della famiglia Lunelli. Terrazza naturale di rara bellezza che si affaccia tra le vigne, guardando la città di Trento, nasce come luogo di sperimentazione per abbinamenti innovativi con le bollicine. Prende il nome dalla vicina e già citata Villa Margon, un complesso cinquecentesco che oggi accoglie la sede di rappresentanza di Ferrari. L apertura al mondo della ristorazione si inserisce in una linea di diversificazione delle attività aziendali a partire dagli anni ottanta, ma non è certo un attività di sola immagine. No, qui si fa ristorazione e seriamente, tanto che oggi la locanda può contare su una stella Michelin. Il nostro pranzo è fissato per il giorno successivo alla chiusura di Vinitaly 2015. Il tragitto da Verona a Trento è accompagnato da una pioggia battente. La primavera non è ancora arrivata e i colori delle colline sono brulli e scuri, recrudescenza di un inverno inzuppato di acqua. Mauro e Marcello arrivano in perfetto orario, alla spicciolata. Ad accoglierci c è lo chef trentino Alfio Ghezzi, cresciuto e formatosi alla scuola di Gualtiero Marchesi e Andrea Berton. Nel suo curriculum spiccano le esperienze fatte in alcuni monumenti dell ospitalità italiana come il Grand Hotel Villa d Este e il Grand Hotel Villa Serbelloni, a Bellagio, e altre ancora in giro per il mondo, prima del suo ritorno a casa. Ci accomodiamo e dopo qualche gradevolissimo finger food ricercato ed essenziale, ci concentriamo sulle quattro annate scelte dalla famiglia Lunelli e sugli abbinamenti proposti dalla cucina. Innanzitutto una sorpresa: la dinamica delle proposte al calice non è in ordine cronologico. Il primo Giulio versatoci è il 1999, un millesimo che conosciamo e apprezziamo per l estrema freschezza e compostezza dei suoi accenti; viene accompagnato con gamberi, arachidi e zenzero, un emulsione di crostacei al coriandolo. Piatto etereo, aereo, di fantastica persistenza gustativa, in assenza di volume in bocca. Sostanza che amplifica le sensazioni eleganti del 1999, che lentamente rivela sfumature incredibili di buccia d arancia, tocchi di spezie fini, in una cremosità contenuta, nel riverbero di frutta tropicale che incrocia lo zenzero del piatto. Il profumo si interseca alla dolcezza iodata dei crostacei in cui si innerva una spiccata nota sapida.

È contento, Mauro, del 1999 mentre ci ricorda come in quell anno fosse stato complesso e azzardato pensare di fare il Riserva del Fondatore: Il clima non facile, sempre piuttosto freddo, e le mutevoli condizioni atmosferiche, con molta pioggia, ci hanno tenuto sulla corda per tutto l arco della stagione. Nel periodo immediatamente precedente alla vendemmia l acqua scesa dal cielo era continua e le temperature piuttosto rigide. Poi, come per miracolo, settembre si è fatto soleggiato e caldo, con forti escursioni termiche tra la notte e il giorno e si sono risolti così tutti i problemi sanitari, permettendo una bellissima maturazione delle uve. Ricordo, in compenso, le fantastiche sciate dell inverno successivo. Il secondo abbinamento vede protagonista il 1996, annata celebratissima, con il riso mantecato, Trentingrana, mele e timo. Quale deliziosa avvolgenza si insinua al palato grazie a una sapientissima mantecatura del riso che trova nell ampio volume del vino il perfetto connubio. Il colore giallo intenso dorato nasconde in un dedalo di sfaccettature la sua complessità, il perlage sottile ci ricorda cosa siano le bollicine: manifestazioni continue di microcosmi ordinati che lasciano scaturire ineguagliabili sostanze aromatiche. La mela appena acidula e la spazialità del timo sono ulteriori elementi di piacere che completano un quadro armonico dalle diverse tinte e sfumature che, per magia, sul palato, trova la corda su cui cammina il funambolo. In equilibrio perfetto. Il terzo Giulio è un insolito 2001. Questa volta lo ha scelto Marcello: Quest annata porta con sé una straordinaria forza e un insolita profondità. Ricordo a memoria il giorno di inizio vendemmia, in quell anno. Era il 10 settembre e a Maso Pianizza le uve erano mature al punto giusto, dopo un annata calda nei mesi di luglio e agosto, ma molto equilibrata. Il nostro Giulio Ferrari 2001 è probabilmente un poco stretto da un 2002 davvero superbo e allora se ne è parlato forse poco, rispetto al suo grande valore; noi riteniamo che, in particolare sulla tavola, in abbinamento a certi pesci importanti anche salsati, possa risultare perfettamente gastronomico e di piacere assoluto. Lo chef Alfio Ghezzi ci propone un piatto che si chiama Blanc de Blancs, quasi un omaggio all uva di Maso Pianizza, ed è un gabilo di fresca salatura con zuppetta allo Chardonnay. Rimaniamo un poco interdetti: riteniamo il piatto troppo saporito per il nostro vino. E ci sbagliamo, di grosso. Il sale è proprio l elemento che connota il bilanciamento delle due materie in gioco, un pesce dalle carni opaline e compatte, quasi nudo, la cui cottura è leggera e soffice, incontra la cremosità del Giulio 2001, appena vegetale di muschio e sottobosco, e confit nei tocchi tropicali. L apparente semplicità della preparazione gastronomica è smentita dalla persistenza, oltre la masticazione, dei toni marini e sapidi che si riverberano, amplificandosi, ogni qualvolta si porti il calice al palato. La maturità del vino rende molto seducente la fase retrogustativa, tutta giocata su toni di nocciola, glassa di fine pasticceria, mango disidratato e gelato alla crema.

Ecco, infine, un azzardo decisamente ben calcolato: animelle di vitello, lenticchie beluga, rapanelli e crescione di torrente con l ultima Riserva del Fondatore uscita sul mercato, la 2004. Le ghiandole salivari o seminali dei bovini sono dolci, molto morbide e lattiginose: sono la loro texture e la masticazione a renderle tanto interessanti quanto abbinabili a un grande Metodo Classico. L abbinamento è tutto giocato su sensazioni tenui e soffici, fino alla chiusura croccante amarognola del rapanello, che rinfresca il centro del palato, innervandosi sulle nuance di zenzero che il vino regala. Il piatto è finito, il Giulio 2004 ancora no, vogliamo mantenerlo nel calice, osservandolo e riassaggiandolo. È facile immaginare altri abbinamenti, lasciando andare la fantasia, nell idea, un giorno, di poterlo avvicinare, magari su altre tavole, a un carpaccio di storione leggermente marinato oppure a un risotto con capesante e fiori di zucca. Sono solo suggestioni che ci fanno capire e apprezzare ancora di più la piacevolezza di questa sontuosa bollicina. Il pensiero ritorna al nostro passato, alle bottiglie condivise, alle tante annate bevute: alla 2000 di complessa maturità, alla 1997 intensa e avvolgente, di completezza al palato. Alla 1993 dal corpo caldo e dalle sfumature speziate, alla 1990 rara e preziosa, un modello per moltissime altre aziende spumantistiche italiane, e alla 1983, perfetta, che rimane nei nostri cuori per averla bevuta in un pomeriggio di fine estate. Quel giorno, a Milano, in quel locale sui Navigli, insolitamente pioveva a dirotto. Proprio come in questo pomeriggio di fine marzo fatto di un cielo plumbeo che mostra solo gradazioni grigie di diversa intensità. Più in alto, la vigna spoglia e il bosco di fine inverno sembrano essersi completamente rabbuiati in coni di un ombra densa e fitta. Trento da quassù non è mai sembrata così malinconica. Abbiamo ancora un annata da finire. Ci allieta la 2004, come un sole nel bicchiere e ci conforta la danza delle bollicine, come un istante di gioia pura.

Salvo Foti, il respiro del Vulcano Il Vulcano Ci cattura dall alto, l Etna, e il ricordo vola a quando eravamo piccoli; questa montagna scura, ampia alla base, ricorda perfettamente la figura di uno dei giochi da bambini in spiaggia più affascinanti: il vulcano. L impressione dal cielo è proprio quella di un cono addolcito di sabbia nera, appoggiato al bordo del mare, a fumare con il suo pennacchio, proprio come quando si accendeva un pezzo di carta nella piccola cavità di sabbia e si vedeva emergere con orgoglio una lieve striscia debole di fumo, evanescente, dal suo cuore. Arrivando a Catania lo si cerca con lo sguardo già dall aereo, la dimensione mostra imponenza e calma, la sua forza e la sua consistenza colpiscono fin dalle veloci sbirciate dalle finestrelle in fase di discesa. Catania che sembra legata ai suoi piedi, schiacciata tra le colate laviche da una parte e il mare dall altra. Una città che rispetta e teme molto la Montagna e che nei secoli passati ha ricevuto e donato al vulcano la vita. Sì, perché se è vero che le eruzioni hanno portato distruzione e morte nei secoli passati, è altrettanto vero che, nelle sue ceneri vulcaniche, ogni seme diventa pianta e ogni frutto non colto presto si trasforma in albero. Vivere in una terra così incerta e fertile come quella etnea, un tempo aveva un significato mistico, quasi religioso, e manteneva sempre accesa l attenzione e il rispetto per una natura dominante. Bastano pochi gradini della scaletta dell aereo per capire: la luce qui è diversa; ve lo diranno loro, i siciliani, che ne sono i beneficiari orgogliosi, e a ragione. Non è semplice dare una spiegazione logica o scientifica ma la realtà è che qui la luce ti entra dentro, ti illumina lo spirito e ti bacia sul volto con un sorriso. Poi prendiamo la strada che sale lentamente da Fiumefreddo verso Randazzo e ci accompagna verso un desiderio di serenità. Man mano che si procede, un senso di rilassamento ci avvolge e, al tempo stesso, ci sembra di tornare indietro di qualche decennio. Incontriamo Piedimonte, Linguaglossa, Solicchiata, fino a Passopisciaro: un bar semivuoto all angolo, una panchina con due pensionati a chiacchierare, qualche vedova vestita di nero sulla porta di casa. Uno sguardo alle vigne rende subito l idea di una tradizione vitivinicola forte e radicata, risalente a un periodo storico antico. Le fitte viti centenarie mostrano le cicatrici del tempo, con tronchi simili ad antichi candelabri e sostenuti nei tralci da

pali di castagno; appaiono immobili ma estremamente vitali e ci raccontano di uomini che quotidianamente, da oltre un millennio o due, si accingono a lavorare questo luogo magico con impegno, rispetto e dedizione. Terra qui proprio non ce n è, troverete solo rocce vulcaniche e cenere lavica dal valore intenso ma inconsistente nella percezione, che lascia sprofondare i piedi in un talco nero. Salvo Foti e i vigneri Il primo incontro con l uomo del vulcano è stato folgorante: lo sguardo intelligente e riflessivo, i capelli sale e pepe e qualche ruga sottolineano un esperienza stratificata negli anni e una luce negli occhi di chi sa e, pazientemente, vuole comunicare con orgoglio. Salvo Foti è una persona serena, conosce bene le priorità che regolano la sua vita e quella della sua famiglia e si percepisce il desiderio forte di trasmettere, di condividere la tradizione culturale, sociale e gastronomica della sua terra. Nel mondo della viticoltura, spesso queste radici si intrecciano e ci insegnano, come lui ricorda e le vigne dimostrano, che l impianto di un nuovo vigneto ha un beneficio relativo per la persona che lo impianta poiché saranno i suoi figli o meglio ancora i nipoti a giovarne appieno. In un momento storico in cui la mancanza di tempo e immediatezza della vita la fanno da padrone, trovare persone con una prospettiva così precisa e ampia è davvero raro e non ci facciamo sfuggire l occasione di imparare qualcosa. Il primo messaggio ci arriva dalla viticoltura ad alberello, centro dei suoi studi da diversi lustri e perfetto esempio di equilibrio. La viticultura etnea antica aveva un sistema di disposizione delle viti denominato a quintonce, che consentiva la perfetta distanza tra le viti in uno schema basato su triangoli equilateri alternati. Oggi della sua specializzazione se ne sono accorti persino in California, dove la sua conoscenza è richiesta e molto apprezzata. L alberello altro non è che un tentativo, ben riuscito, di responsabilizzare una vigna e renderla autonoma, contro la sua innata tendenza ad arrampicarsi, a sfruttare gli altri. Da qui si parte per ottenere un equilibrio centrato sulla pianta e non su un filare, come la meccanizzazione da qualche decennio richiede. Salvo, nel riconoscere questo ruolo, mostra invece la voglia di valorizzare il passato, suo e della sua gente, che l ha portato a documentarsi e a investire nella storia in chiave moderna. A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro. I vigneri 1435, città di Catania. Appena un anno dopo la nascita della più antica università siciliana, prende forma una maestranza legata alla viticoltura, forse la più antica

del mondo. Si chiamano vigneri e hanno l obiettivo di formare e responsabilizzare le persone che lavorano nei vigneti, principalmente quelli etnei. La cittadina di Riposto, la via al mare più vicina al vulcano, ovvero alle sue pendici, era il magazzino e fulcro commerciale dei vini etnei, così come la pedemontana che da Milo abbraccia il vulcano sino a Randazzo era ed è la migliore zona di produzione. L Italia e l Europa sono nella fase evolutiva del Medioevo e l America è una terra ancora da scoprire, mentre già nell importante città del Regno di Sicilia si insegna a valorizzare la viticoltura. Ha un significato particolare sapere che già seicento anni fa, in un contesto decisamente lontano dal nostro, ovvero nel Medioevo, la vigna avesse un ruolo centrale nella vita di alcuni personaggi che si dedicavano alla terra. L idea, semplice ma geniale al tempo stesso, ha portato Salvo Foti a riproporre questa maestranza, andando a investire in modo significativo sulle energie da dedicare alla comprensione della vite e delle sue dinamiche di crescita e coltivazione. È un progetto di notevole significato, specialmente oggi che la manodopera professionale scarseggia. In questo luogo, in netta controtendenza, si valorizza la straordinaria figura del viticoltore. Salvo Foti oggi ha una spalla solida, si chiama Maurizio Pagano e ha un cuore grande come la Montagna, pieno di orgoglio per un lavoro meraviglioso e duro, che ogni mattina, se va bene all alba, lo richiama a prendersi cura di questo museo a cielo aperto. Dobbiamo molto a Salvo Foti. È stato grazie al suo entusiasmo se ci siamo innamorati di questa terra e l abbiamo compresa un poco di più, approfondendone i contenuti storici e climatici, territoriali e umani. Così come ci ha fatto scoprire la sua grande cucina, quella di Paolina di San Giorgio e il drago, a Randazzo, considerata la migliore del versante nord e un punto di ritrovo per tutti i produttori e gli appassionati della zona. Alcuni dei suoi piatti sono mitici, come i Tonnarelli con gli asparagi selvatici dell Etna e la Salsiccia con le verdure di campo. Oggi Salvo ci fa scoprire qualcosa di nuovo. A pranzo prendiamo una zuppa del contadino, piatto povero ma dal grande valore culturale e salutistico. Siamo al Cave Ox di Solicchiata, dove un ottimo minestrone di verdure di stagione viene arricchito da crostini di pane aromatizzati con olio e origano e un uovo tuffato che lentamente si rapprende. Basta poco altro: un piatto di verdure leggermente piccanti e il nostro corpo si rigenera. Ci spostiamo verso est, prendendo la strada a quota mille, una sorta di circonvallazione panoramica a monte dei paesi etnei. Come spesso accade troviamo un po di nevischio, che sciogliendosi crea una poltiglia nerastra con la cenere lavica ai lati della strada. Acqua e cenere, ecco cosa nutre la vegetazione posata sulle rocce vulcaniche, tutto qui. Durante il tragitto non possiamo fare a meno di soffermarci qualche minuto a vedere uno tra gli alberi più antichi d Europa. Si chiama il Castagno dei cento cavalli e, non bastasse la vista, camminare sotto i suoi rami regala un intimità e una

serenità interiore e protettiva notevole. Si stima che possa avere dai tre ai quattromila anni e delle radici infinite. Proseguiamo, Salvo ci conduce a Milo a vedere i suoi nuovi progetti, poiché lì ha predisposto il futuro della sua famiglia. Il piccolo comune, di appena mille anime, è dominato dalla chiesa in pietra lavica e ha una vista mozzafiato sulla costa siciliana. Sembra di toccare con un dito Taormina e i villaggi tanto cari a Verga e ai Malavoglia sono a uno sguardo di distanza. Qui Salvo ha deciso di concentrare le sue risorse preparando il futuro per Simone e Andrea, i suoi figli. Il versante orientale ha un clima sensibilmente diverso da quello settentrionale, temperature più miti, influenza della brezza marina che ne rinfresca i pomeriggi e ne aumenta la piovosità. È una zona dove nasceranno grandi vini bianchi e che ha già dimostrato affinità per il carricante, particolarmente adatto a questa piccola sottozona. Le viti ormai sono messe a dimora in una sorta di anfiteatro dall aspetto artistico ed estetico straordinario. Ora serve solo il tempo, e tanta cura. L uovo dell ospitalità e i vini A pochi passi dal centro del paese, c è una piccola osteria, si chiama 4 Archi e ci aspettano per cena. Il locale all esterno è ricchissimo di piante che ne decorano le mura mascherandone la struttura, mentre all interno è arricchito da oggetti appesi ovunque, arredato con molta personalità a rendere barocca una casa di campagna semplice e vera. Il locale è articolato in più salette, che appaiono ricche come il cuore di un bazar. Saro Grasso ci accoglie come un vero oste sa fare, non fosse per quel gran sorriso che spesso gli osti non hanno. Si sente un buon profumo e l atmosfera è di casa. Pochi minuti dopo, quando ci presentano il loro benvenuto, avviene qualcosa di magico. Conosciamo molto bene l usanza di meravigliare il palato prima di un pasto ma qui andiamo ben oltre riprendendo un antica tradizione siciliana. Prima di ordinare e di capire cosa avremmo mangiato, infatti, arriva a ogni commensale un piattino con un uovo. Sì, semplicemente un uovo sodo, caldo e da sgusciare mentre Saro ci racconta il menu e la sua storia. In questo omaggio e in questo pensiero è racchiusa tutta la filosofia del locale. Innanzitutto l ospitalità, donare un uovo può apparire oggi come un gesto banale ma è proprio nel valore della sua radice che acquisisce forza e significato. Inoltre il calore che emana durante la separazione del guscio è una coccola irresistibile, specie durante le giornate fredde e uggiose, come accade di trovare in inverno a Milo. Infine la prova dell uovo sodo, che è forse la più facile tra le preparazioni esistenti, richiede una materia prima di

straordinaria qualità, così come è in quest occasione e come sempre ci si attende in una grande cucina. È ora di assaggiare qualcosa e si inizia a stappare. Non è stato facile scegliere fra i diversi vini che produce Salvo Foti, ve ne sono diversi che avrebbero meritato attenzione. Tra le varie opportunità, vi avremmo potuto parlare di un vino unico, vero figlio di annate plasmate sul clima e sulla peculiarità della Vigna Bosco. Vinudilice infatti è il vino ottenuto da una tra le vigne più alte d Europa, a 1280 metri s.l.m., che dona un rosato con una matrice nervosa e speziata ma sempre diversa: fermo, abboccato o vinificato con il Metodo Classico, risulta comunque inimitabile. Un altro appuntamento importante sarebbe stato con i vini bianchi etnei di cui Salvo è uno degli interpreti più personali. Ci soffermiamo invece su un vino che, a nostro parere, rimane un modello di riferimento per tutta la viticoltura italiana, il Vinupetra. È questo un vino di grande carattere, nasce da quel museo a cielo aperto che Salvo custodisce con cura a Passopisciaro, interpretando il carattere di uno tra i più austeri territori da vino. Cosi come avviene per i più conosciuti Monforte d Alba, Montalcino e Taurasi, i vini di quest area acquisiscono dal terreno una sostanza e una matrice tannica superiore ai comuni vicini. Gli stili enologici di oggi in questa zona sono i più disparati: importante è stato il contributo di Franchetti e Marco de Grazia nel far conoscere al mondo vini dall approccio più moderno e immediato, ma è a questo vino che pensiamo quando ricerchiamo un riferimento strettamente legato al territorio. Non sono solo le vigne centenarie, che sicuramente contribuiscono a creare un vino di grande profondità gustativa, ma anche e soprattutto il lavoro quotidiano dei suoi vigneri che consegna alle viti una maggior forza e autonomia gustativa. Iniziamo con la 2012, appena messa in commercio, se con queste poche migliaia di bottiglie possiamo parlare di commercio. Il colore è intenso per l annata densa e profonda, mentre al naso veniamo avvolti da una sensazione di frutta nera, virile e calda, avvolgente, con toni balsamici di eucalipto. La terra emerge, si percepiscono note mediterranee di erbe aromatiche tipiche dell alicante, varietà in disuso nei nuovi vigneti ma che contribuisce significativamente alla complessità dei vini da vigne centenarie, dove è sempre presente. Il palato è austero, alcol e tannini sono marcati per un vino che viene dalle pietre, nomen omen. Si prosegue con la 2008, una delle più belle annate che ricordiamo in questa zona, fitta ma molto armonica, un naso di amarene e mirtilli, foglie di mirto e cedro del Libano. Spezie e frutta sono fuse, magistralmente avvolte da una rete di agrumi canditi, maggiorana e pasta di olive come sfondo. Nel frattempo arrivano i primi piatti consigliati dal patron. Iniziamo con il pane cotto, una pietanza tra le più povere e vera arte culinaria della nostra tradizione,

capace di stupire il palato con pochi ingredienti di recupero. Un piatto che vale la visita è la carbonara di carciofi. Stupendo. Come stupenda è l annata 2005 del Vinupetra, sottile e delicata, precisa. Un vino che non mostra i muscoli ma classe e signorilità. L abbinamento, nonostante i pregiudizi c è. Lo spaghetto di Gragnano è sostenuto, i cuori di carciofo, che solo su questo vulcano risultano così profumati, e un poco di speck che dona la nota fumé chiudono un cerchio armonico delizioso. Lina, la grande donna ai fornelli, ha una mano particolarmente felice, sempre precisa nell armonia, si propone con una cucina rassicurante e comoda, di grande raffinatezza, sebbene con prodotti considerati comuni. Seguono le carni alla brace, cottura anche questa semplice ma discriminante. Il gusto e la consistenza della costata di vitello rivelano un ottima materia, ben frollata, mentre nelle costine dei Nebrodi si percepisce tutta l intensità di un maiale di origini selvatiche. Il vino per questo piatto è Vinupetra 2001, un vino che rasenta la perfezione e che amalgama sensazioni eteree e fruttate di grande complessità olfattiva e dalla sensuale dorsale viva e vigorosa. La frutta torna antica, con nespole, mele annurche e nocciole, finale di grandissima eleganza e profondità. L uomo del Vulcano ci racconta dei suoi progetti, del suo continuo impegno per una terra a cui è legato in modo ancestrale, sulle sue radici. Dopo averci offerto un assaggio di un meraviglioso dolce a base di castagne, salutiamo l oste e la cuoca e ci rinfreschiamo con l aria pungente della sera e con una vista commovente dalla piazza-terrazza del piccolo paese. Sappiamo bene che il momento del rientro è vicino e il distacco da una natura materna così presente non sarà affatto facile. Salvo ci saluta con un caro abbraccio, forte e sincero, quello che puntualmente sentiamo stringerci al petto tutte le volte che dobbiamo abbandonare la meravigliosa Montagna di fuoco.

Bruno Giacosa, o della sacralità La ferrovia I sassi sono ingialliti e odorano di ferro, qua e là spuntano erbe selvatiche e qualche fiore; una sola via, una delle prime strade ferrate d Italia, risalente al 1870. Risulta fuori luogo il cartello con il n. 1 di colore azzurro a indicare l unico binario, in una cartolina in bianco e nero che non si è mai realmente aggiornata nel tempo. Siamo a Neive, nel cuore delle Langhe, e ci avviciniamo, curiosi, alla stazione ferroviaria, una grande casa rossastra a due piani, i cartelli informativi decadenti, un roseto che sopravvive a stento e un po di malinconia. Fino a qualche anno fa, con poche tratte durante il giorno, un vecchio treno a gasolio accompagnava i ragazzi alle scuole di Alba e li riportava a casa nel pomeriggio. C erano pure tanti lavoratori che si spostavano verso le grandi aziende della città, pendolari da Cantalupo, Nizza Monferrato, Canelli; si passava anche per Neive, piccolo centro collinare, poco distante da Barbaresco, con cui condivide la ferrovia e la celebre denominazione. Un solo binario, lo troviamo ancora lì, invecchiato, e mangiato dalla ruggine e dallo scorrere del tempo. La piccola stazione è chiusa da un lustro ma ancora oggi ne percepiamo la vita che fu; il rumore, goffo e stridente del treno, il profumo, acre ma materno della locomotiva, le chiacchiere e l attesa, che caratterizzano tutte le stazioni del mondo. Tutto sembra immobile, nel lento ma progressivo mutamento che la natura poco a poco attiva per riprendersi quello spazio oramai abbandonato dall uomo. Sembrano così lontane ma sono perfettamente calzanti le parole di Victor Hugo che descrisse in una lettera alla moglie il suo primo viaggio in treno, in una Francia del 1839: È un movimento magnifico, che bisogna aver sentito per rendersene conto. La rapidità è inaudita. I fiori ai lati della via non son più fiori, sono macchie anzi sono strisce rosse o bianche; le città, i campanili e gli alberi danzano e si perdono follemente all orizzonte; occorre uno sforzo per non figurarsi che il cavallo di ferro sia una vera bestia. La si sente soffiare nel riposo, lamentarsi in partenza, guaiolare in cammino: suda, trema, fischia, nitrisce, rallenta, trascina; enormi rose di scintille sprizzano gialle a ogni giro di ruota o dai suoi piedi, e il suo respiro se ne va sopra alle nostre teste in belle nuvole di fumo bianco, che si lacerano sugli alberi della strada.

L immortalità del vino È un viaggio lungo cinquant anni quello che facciamo oggi, che ci riporta indietro nel tempo, fino al secondo dopoguerra: ci regaliamo un emozione. Abbiamo deciso di portare in dono a Bruno Giacosa, il più grande esperto di vigne di Langa di oggi, una sua bottiglia tra le più rare, un Barbaresco Riserva Speciale dal vigneto Santo Stefano: poco più di mille bottiglie provenienti da una delle più importanti annate del secolo scorso, la 1964. È un regalo che facciamo a lui ma che, nonostante la rarità della bottiglia, vogliamo condividere con il suo creatore, colui che ormai cinquant anni or sono ha avuto la sensibilità e la conoscenza per immaginare quello che oggi è, forse, il vino italiano più buono che ci sia capitato di assaggiare. Riportarlo a casa, dopo un viaggio lungo e cauto dove le bottiglie sopra citate stanno ripercorrendo a ritroso tutte le tappe, dalla partenza per giungere al rientro, alle origini. Conosciamo e apprezziamo i vini di Bruno da quei millesimi, bevuti e assaggiati il più spesso possibile poiché siamo convinti che siano vini inimitabili e che, come pochissimi altri, riescono a sostenere, inflessibili, lo scorrere del tempo. Il ricordo di una degustazione memorabile in un locale di cultura del vino e delle sue storie, vide l assaggio impressionante di dieci millesimi su un quarto di secolo, bottiglie uniche incise con forza nella memoria. Barbaresco Riserva Speciale 1964, il colore svela una media intensità in un quadro vivace, dai riflessi aranciati, vivi, cangianti. Notevole la luminosità. Il profumo parla di un ottima pulizia di espressione, una freschezza incredibile con punta volatile. Il richiamo alla frutta rossa sotto spirito, alla polpa carnosa, ci dice quanto questo vino sia nobile e ancora assai integro. Al palato è fresco, si potrebbe dire volubile, femminile, di buona intensità e lunghezza. Piacevolissimo constatarne l evoluzione nel bicchiere, lentamente; quasi un procedere del piacere che porta tocchi di torrefazione, cacao, biscotto. Uno struggente esempio di perfezione: era il 1964, lo stesso che portiamo oggi ma da una denominazione generica. Barolo Vigna Rionda di Serralunga d Alba 1968, dalla luce piuttosto tenue, di media luminosità e dalle tinte mattone, tegola, terra cotta. Al naso è piuttosto complesso, morbido e dolce, fruttato, ha inoltre il fieno umido, la terra smossa, una punta ferruginosa. Al palato è armonico: elegante, di seta, intenso e composto insieme, lungo e persistente, forte e sottile. Un Barolo di grande classe che ci porta a Serralunga, con quella nota del suolo che non dimentichi e ti accorgi che, come spesso afferma Bruno Giacosa, la vinificazione è molto meno importante della provenienza dell uva e del lavoro in vigna. Barolo Arione di Serralunga d Alba 1971, un piacere enorme già dalla profondità e dinamicità delle tinte che dall aranciato virano al mattone in una lucentezza e brillantezza incredibili.

Al naso è morbida l avvolgenza del frutto rosso nei forti aromi sotto spirito, ma anche quel suo procedere austero, piuttosto rigido, lungo e penetrante. Vino sottile, estremamente piacevole e profondo, di anima. Barolo Falletto di Serralunga d Alba Riserva Speciale 1971 svela una veste piuttosto spenta nella tinta dal riflesso ruggine. Al naso è intenso e penetrante con una forte presenza di note di tabacco, dopo un attacco che richiama il mallo della noce. Un vino molto austero, maschile, forte e assai intenso. Barbaresco Gallina di Neive 1978, annata assai reputata che, in questo esemplare, mostra tutto il suo calore. Di buona intensità il colore aranciato e la lucentezza. Al naso, questo Barbaresco porta un notevole stacco alcolico, piuttosto penetrante; gli aromi, marcati, sono vicini tra loro, monocordi nei richiami alla frutta sotto spirito, al tabacco intenso e a note ferruginose. Al palato è vigoroso, non troppo elegante e ancora rigido nell espressione. Barolo Falletto Pugnane di Castiglione 1978, fantastico per brillantezza delle tinte e per luminosità. Incredibile, ancora, il naso dalla matrice intensa, con richiami al tè nero Assam, al tabacco dolce, al caffelatte. È dinamico al palato, cremoso, piacevolissimo, dalla continua intensità e piacevolezza. Una meraviglia poter degustare e bere un esemplare tanto perfetto e buono. Barolo Arione di Serralunga d Alba 1979, tinte mattone con riflessi brillanti. Le sensazioni olfattive sono ampie e intense. Sono notevoli le note di sottobosco e fiori secchi, viola e funghi porcini, scatola di sigari cubani, lievemente ematico nella chiusura. Al palato si mostra sottile e fine, nel ricordo del tartufo nero, piuttosto elegante. Barbaresco Santo Stefano di Neive Riserva 1985, luminoso e brillante nelle tinte audaci del rosso, appena increspato da venature aranciate. Al naso è strabiliante la nettezza e la precisione degli aromi, quella aristocrazia maestosa, quel frutto croccante, turgido, la nota balsamica appena accennata. Al palato è una delizia: l armonia piuttosto selvaggia, perimetro perfetto, integro e saldo tra materia, alcol, sviluppo e maturazione in bottiglia. Barolo Falletto di Serralunga d Alba Riserva 1986, dalla forte lucentezza e brillantezza nelle tinte, svela una forza aromatica quasi trasgressiva, nuda, senza interpolazioni, tanto vivo è l impatto del terroir. Un Nebbiolo puro, essenziale non coperto dalle tecniche di vinificazione che indurrebbero alla sola estrazione del frutto. Nel calice, invece, esce un tutt uno: terra-uva-frutta. Il piacere di questo vino risiede nel suo carattere, nella profondità, nel vigore. Vino in divenire, forse ancora troppo giovane per essere bevuto. Barolo Falletto di Serralunga d Alba Riserva 1989, brillanti le tinte del rosso in armonia con la luce. Al naso è chiuso e piuttosto alcolico. Anche in bocca non risulta assai piacevole, troppo legato e spigoloso, scorbutico, non slegato verso l armonia. Un Barolo probabilmente troppo giovane, incredibile a dirsi, ma è così, non riesce a essere ciò che potrebbe essere. Il fascino del tempo nel vino.

Bruno Giacosa Chiamatelo se volete il più grande négociant delle Langhe. Bruno di nome e Giacosa di cognome o come lo chiama dolcemente Angelo Gaja, Giacosabruno senza spazi, una cosa sola. È un vecchio uomo, intriso di esperienza, di vita e di storia. Lui ha assistito al passaggio dei decenni, quelli più bui e quelli più chiari del mondo del vino, dell Alta Langa in particolare. Conosce ogni singolo appezzamento e, con una memoria d altri tempi, sa esattamente cosa aspettarsi da ogni partita, da ogni filare. Ha trattato e comprato ai prezzi più alti le migliori vigne, le uve dei migliori vigneti di Barolo e di Barbaresco e tutta la gente del posto, così come gli appassionati di mezzo mondo lo stimano con riguardo e ammirazione. Se mette gli occhi su una vigna, su un appezzamento o su una partita di uve, chiunque altro stia cercando di acquistare quel piccolo bene, oggi tanto costoso, può star certo che Giacosa arriverà e sarà disposto a pagare il vero valore che questo bene merita, se la considera vera eccellenza. Bruno ha sempre amato mangiare ma mai pasticciato. È legato a una cucina semplice ed economica come il momento storico che ha vissuto e non si è fatto ingolosire dalle mode, nel cibo come nel vino, da buon piemontese. Una cucina semplice ed efficace, basata su materie prime di grande qualità, senza eccessi e senza fronzoli. Una cucina che ha momenti ben scanditi, dalla domenica di festa agli avvenimenti più importanti così come la quotidianità contenuta. I piatti sono quelli della cucina piemontese, dall insalata russa agli arrosti di animali da cortile, qualche volta la pasta, tante verdure e sempre un bicchiere di vino. Come produttore di riferimento della zona ci si aspetterebbe di veder crescere tanti piccoli Giacosa nel suo territorio a cercare di emulare uno dei più significativi produttori italiani ma purtroppo non è così facile. Ci risponde con poche parole: basta una grande uva. Che poi, questa affermazione la sentiamo spesso da chi non ha bisogno di mostrare, da chi ha l umiltà di fare un passo indietro, nei vini come nelle materie prime della cucina, dando più importanza alla materia che alla propria interpretazione e manualità. Dopo tanti anni trascorsi a selezionare le uve migliori di Barolo e Barbaresco, l Azienda Agricola Falletto raccoglie le scelte e gli investimenti fatti dalla famiglia Giacosa nel tempo, quasi ad agevolare la figlia Bruna nel passaggio generazionale, indiscutibilmente complicato quando si è in presenza di una dote naturale come quella di Bruno, favorita dall avere alcuni punti fermi nella ricerca della perfezione. Una volta impostate le vigne e quindi rafforzata la collaborazione con Dante Scaglione, responsabile della parte enologica dal 1996, il compito di Bruna sembra lievemente facilitato. Un ulteriore importante collaborazione è quella con Francesco Versio, enologo giovane e brillante, entrato operativamente in cantina, in modo silenzioso, si candida come una giovane colonna su cui poggiare e rafforzare un patrimonio culturale di valore inestimabile. Dal 2011 infatti accompagna le

vinificazioni di questi immensi vini, attraverso i delicati passaggi che ne anticipano la messa in bottiglia. Non capita tutti i giorni di vedere aziende di questo spessore fare una seria autocritica e non mettere sul mercato vini da vigneti così prestigiosi solamente perché non ritenuti all altezza del nome che portano. Un modo di pensare antico, come quando le annate da ricordare erano tre su dieci e venivano utilizzate per le riserve migliori. Avremmo voluto incontrare Bruno Giacosa in un ristorante tradizionale, con i tajarin e un arrosto di coniglio ma la sua età e un limite di mobilità ci suggeriscono di trovarlo lì, in azienda, dove continua ad andare, di tanto in tanto, per vivere la sua vita. È un uomo che ha vissuto in quelle cantine e a cui il vino ha dato tanto. In misura certamente superiore lui ha donato alla sua denominazione e più in generale a un modello di ben fatto in Italia che ci inorgoglisce nel mondo. Vedere la sua faccia, stanca e attenta, avvicinarsi alla bottiglia posata sul tavolo, con l etichetta rossa consumata e il numero di bottiglia scritto a mano da lui, che riconosce la calligrafia, non ha prezzo, specie quando una piccola lacrima di commozione lo coglie e noi con lui, in un abbraccio che mancava da cinquant anni. Alla salute del più grande interprete italiano del vino.