Le dispense del corso di Istituzioni di Analisi Superiore n. 2

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1 Corso di Laurea in Matematica Università di Bari A.A Le dispense del corso di Istituzioni di Analisi Superiore n. 2 Prof. Enrico Jannelli Dott. Sandra Lucente Argomenti: Il prodotto di convoluzione Il duale degli spazi L p La convergenza debole (I) definizione e prime proprietà La convergenza debole (II) teoremi di compattezza e di semicontinuità Immersioni compatte per gli spazi H s (T ) e H s (T N ) Alcuni esempi di problemi variazionali Alcuni complementi sulle distribuzioni Programma del corso

2 Il prodotto di convoluzione Siano f, g due funzioni in L 1 (R N ) a valori in R. Definiamo il prodotto di convoluzione di f e g, e lo indichiamo con il simbolo f g, la funzione (1) h(x) = (f g)(x) = f(x y)g(y) dy. R N Essendo f, g in L 1 (R N ), non è chiaro, a priori, nemmeno che l integrale in (1) abbia senso. Questo è l argomento della proposizione seguente, la cui dimostrazione si basa sul teorema di Fubini Tonelli. Proposizione 1 Siano f, g due funzioni in L 1 (R N ). Allora, posto h(x) = (f g)(x), risulta h L 1 (R N ), e h 1 f 1 g 1 ; inoltre risulta (2) ( )( ) h(x) dx = f(x) dx g(x) dx R N R N R N Definiamo F (x, y) = f(x y)g(y). F è una funzione misurabile in R 2N ; inoltre risulta (3) R N dy F (x, y) dx = R N g(y) dy R N f(x y) dx = f 1 g 1, R N dove, nell ultima uguaglianza, abbiamo usato l invarianza per traslazioni della misura di Lebesgue in R N. Pertanto, dalla (3) otteniamo che F L 1 (R 2N ), e il teorema di Fubini implica che h(x), definita dalla (1), esiste per quasi ogni x e appartiene a L 1 (R N ). Inoltre h 1 = h(x) dx R N R N dx F (x, y) dy = R N R N dy F (x, y) dx = f 1 g 1. R N Infine, sempre dal teorema di Fubini otteniamo ( )( ) h(x) dx = g(y) dy f(x y) dx = f(x) dx g(x) dx R N R N R N R N R N Osserviamo esplicitamente che il prodotto di convoluzione è commutativo; infatti (f g)(x) = f(x y)g(y) dy = R N f(v)g(x v) dv = (g f)(x). R N In realtà, la convoluzione di due funzioni f, g ha senso, sotto opportune ipotesi, anche se f L p 1 (R N ) e g L p 2 (R N ). Questo è l argomento del teorema di Young, al quale premettiamo il seguente 1

3 Lemma 1 Sia fissata una funzione f L p (R N ), con 1 p <, e sia τ x l operatore di traslazione che ad ogni funzione g(t) : R N R associa la funzione (τ x g)(t) = g(t + x). Allora, l applicazione x τ x f è un applicazione uniformemente continua da R N a valori in L p (R N ). Fissiamo ε > 0. La densità di C c (R N ) in L p (R N ), per p <, implica che esiste g C c (R N ) tale che f g p < ε. Siano ora x 1, x 2 R N. Si ha τ x1 f τ x2 f p τ x1 f τ x1 g p + τ x1 g τ x2 g p + τ x2 g τ x2 f p < 2ε + τ x1 g τ x2 g p (si osservi che nella relazione precedente è stata usata l invarianza per traslazioni della misura di Lebesgue). La funzione g è continua e a supporto compatto, e pertanto esiste δ > 0 tale che, se x 1 x 2 < δ, τ x1 g(t) τ x2 g(t) = g(t + x 1 ) g(t + x 2 ) < ε. Inoltre, c è un compatto K di misura finita tale che τ x1 g e τ x2 g hanno supporto in K, e la misura di K è funzione solo della misura del supporto di g e di ε. Da queste considerazioni segue che τ x1 g τ x2 g p (m(k)) 1 p ε, e quindi esiste una costante C tale che purché sia x 1 x 2 < δ τ x1 f τ x2 f p Cε Possiamo ora enunciare e dimostrare il seguente Teorema 1 (Young) Siano f L p 1 (R N ), g L p 2 (R N ), con 1 p 1, p 2, e supponiamo che 1 p 3 = 1 p p (si conviene che p i = 1 p i = 0). Poniamo h(x) = (f g)(x). Allora: h L p 3 (R N ) e h p3 f p1 g p2 ; se p 1 e p 2 sono esponenti coniugati (il che equivale a dire che p 3 = ), allora h(x) è una funzione uniformemente continua in R N ; inoltre, se 1 < p 1, p 2 <, h C 0 (R N ). Esaminiamo, dapprima, il caso p 3 <, ovvero il caso in cui p 1 e p 2 non sono esponenti coniugati. Poniamo f(x y)g(y) = α(x, y)β(x, y)γ(x, y), dove α(x, y) = f(x y) p 1 p 3 g(y) p 2 p 3 ; β(x, y) = f(x y) 1 p 1 p 3 ; γ(x, y) = g(y) 1 p 2 p 3. Essendo (α(x, y)) p 3 = f(x y) p 1 g(y) p 2, risulta R N (α(x, y)) p 3 dy = ( f p 1 g p 2 )(x) ; 2

4 poiché f p 1 e g p 2 sono funzioni di L 1 (R N ), dalla proposizione 1 segue che (α(x, y)) p 3 L 1 (R N y ) per quasi ogni x R N x, ovvero α(x, y) L p 3 (R N y ) per quasi ogni x. Si ha poi che β(x, y) L p 3 p 1 p 3 p 1 (R N y ) x q.o.; γ(x, y) L p 3 p 2 p 3 p 2 (R N y ) x q.o.; pertanto, tenuto conto del fatto che la somma degli inversi dei tre esponenti di sommabilità in y di α, β e γ è pari a 1 + p 3 p 1 + p 3 p 2 = 1, p 3 p 3 p 1 p 3 p 2 la disuguaglianza di Hölder implica che, per quasi ogni x, il prodotto α(x, y)β(x, y)γ(x, y) = f(x y)g(y) è in L 1 (R N y ), e si ha da cui, elevando a p 3, (4) R N f(x y)g(y) dy f p 3 p 1 p 3 p 1 p 3 p 2 p g 3 p 2 [( f p 1 g p 2 )(x)] 1 p 3 ( ) p3 f(x y)g(y) dy f p 3 p 1 p 1 g p 3 p 2 p 2 ( f p 1 g p 2 )(x). R N Dalla proposizione 1 sappiamo che il termine ( f p 1 g p 2 )(x), essendo la convoluzione di due funzioni in L 1 (R N ), è ancora in L 1 (R N x ), e risulta (5) f p 1 g p 2 1 f p 1 1 g p 2 1 = f p 1 p 1 g p 2 p 2 ; pertanto, la (4) implica che (f g)(x) L p 3 (R N x ); inoltre, tenendo in conto la (5), f g p 3 p 3 f p 3 p 1 p 1 g p 3 p 2 p 2 f p 1 p 1 g p 2 p 2 = f g p3 f p1 g p2, il che conclude la dimostrazione nel caso p 3 <. Siano ora p 1 e p 2 esponenti coniugati, per fissare le idee supponiamo che sia p 1 < (ciò non lede la generalità, essendo la convoluzione commutativa). Vogliamo dimostrare che f g è una funzione L (R N ) che è anche uniformemente continua, e tende a zero all infinito se 1 < p 1, p 2 <. Usando la definizione e la disuguaglianza di Hölder, si vede subito che (f g)(x) L (R N ), e f g f p1 g p2. Essendo poi τ x (f g) = (τ x f) g, risulta, per ogni x 1, x 2 R N τ x1 (f g)(t) τ x2 (f g)(t) = (f g)(x 1 + t) (f g)(x 2 + t) = ((τ x1 f τ x2 f) g)(t) τ x1 f τ x2 f p1 g p2, da cui, utilizzando il Lemma 1, otteniamo che f g è una funzione uniformemente continua in R N. 3

5 Nel caso in cui 1 < p 1, p 2 < sappiamo che C c (R N ) è denso in L p 1 (R N ) e in L p 2 (R N ); pertanto, fissato ε > 0 esistono f ε, g ε in C c (R N ) tali che f f ε p1 < ε, g g ε p2 < ε. Sia B(0, R) una palla in R N centrata nell origine che contenga il supporto di f ε e di g ε. Allora una verifica immediata mostra che f ε g ε ha supporto contenuto entro B(0, 2R). Poiché si ha f g = (f f ε ) g + f ε g ε + f ε (g g ε ), considerando che f ε g ε è nulla per x 2R, si ha (f g)(x) (f f ε ) p1 g p2 + f ε p1 (g g ε ) p2 Cε x : x 2R, e questo mostra che f g C 0 (R N ) In molti casi, la convoluzione tra due funzioni f e g è regolare se (almeno) uno dei due fattori è regolare. Questo è l argomento della prossima proposizione. Proposizione 2 Siano f C k (R N ) e g L 1 (R N ), e supponiamo che D α f L (R N ) per ogni multiindice α : α k. Allora f g C k (R N ), e D α (f g) = D α f g La funzione f g è continua, in conseguenza del teorema di Young, essendo f L (R N ) e g L 1 (R N ). Fissiamo un vettore v R N, e consideriamo il rapporto incrementale (6) (f g)(x + tv) (f g)(x) t f(x + tv y) f(x y) = g(y) dy; R t N quando t 0, il termine f(x+tv y) f(x y) t tende puntualmente a f v (x y); inoltre, essendo le derivate prime di f limitate in tutto R N, dal teorema del valor medio segue che esiste una costante C tale che C, e quindi la convergenza nell integrale f(x+tv y) f(x y) t della (6) è dominata dalla funzione C g(y). Pertanto si può passare al limite per t 0, ottenendo f (f g)(x) = (x y)g(y) dy = ( f v v v g)(x). La tesi della proposizione, a questo punto, segue per induzione su k R N Osserviamo che, ad esempio, se f Cc k (R N ), allora ovviamente f rientra nelle ipotesi della proposizione 2. Si noti che la limitatezza delle derivate serve per passare al limite sotto il segno di integrale, utilizzando il teorema della convergenza dominata; è facile vedere che questo passaggio al limite è possibile (e dunque continua a valere la tesi della proposizione 2) anche se le derivate di f non sono limitate, ma in compenso g è a supporto compatto. Possiamo quindi riassumere, sia pur perdendo in generalità, dicendo che la convoluzione f g è di classe C k se almeno uno dei due fattori è di classe C k e se almeno uno dei due fattori è a supporto compatto. 4

6 Notiamo, infine, che la sola regolarità dei fattori di convoluzione non basta a garantire la regolarità del prodotto di convoluzione, e un controesempio può essere costruito nel modo seguente: si consideri una funzione f : R R, continua, pari (cioè tale che f(x) = f( x)), in L 1 (R) ma non in L 2 (R), e si definisca g(x) = (f f)(x). La funzione g è in L 1 (R), ma non è continua, pur essendo la convoluzione di una funzione continua con se stessa; per vederlo, basta calcolare g(0), ottenendo g(0) = R f(0 y)f(y) dy = R f 2 (y) dy =. Occupiamoci ora di un applicazione molto importante del prodotto di convoluzione: la cosiddetta soluzione fondamentale per un operatore differenziale a coefficienti costanti. Per cominciare, osserviamo che il prodotto di convoluzione commuta con gli operatori differenziali a coefficienti costanti: se L = α k c αd α, f C k c (R N ) e g L 1 (R N ), allora si ha che L(f g) = (Lf) g. Ora, se esistesse una funzione g L 1 (R N ) tale che g f = f per ogni f L 1 (R N ), cioè se esistesse in L 1 (R N ) l unità del prodotto di convoluzione, avremmo un metodo per risolvere, in R N, i problemi differenziali del tipo Lu = f, dove L è un operatore differenziale a coefficienti costanti e f è un termine noto in L 1 (R N ) a supporot compatto: basterebbe risolvere il singolo problema Lw = g, e poi una soluzione del generico problema Lu = f sarebbe fornita dalla funzione u = w f; infatti avremmo L(w f) = (Lw) f = g f = f, dove abbiamo utilizzato la proprietà di L di commutare con la convoluzione e la (presunta) proprietà di g di essere l unità (ovvero l identità) del prodotto di convoluzione. Ma una tale g non esiste, come mostra la proposizione seguente: Proposizione 3 Non esiste alcuna funzione g L 1 (R N ) tale che g f = f per ogni f L 1 (R N ). Per assurdo: sia g L 1 (R N ) unità del prodotto di convoluzione. Per l assoluta continuità dell integrale di Lebesgue esiste δ > 0 tale che g(y) dy < 1 per ogni misurabile A tale A che m(a) < δ. Sia ora ρ > 0 tale che m(b(0, ρ)) < δ, e consideriamo f(x) = χ B(0,ρ) (x). Risulta: f(x) = (g f)(x) = g(x y)f(y) dy = R N da cui f(x) = (g f)(x) B(0,ρ) B(x,ρ) g(x y) dy = g(y) dy < 1 e questo è assurdo, perché f(x) assume il valore f = 1 in B(0, ρ) 5 B(x,ρ) x R N g(y) dy x R N,

7 Dunque, nessuna funzione di L 1 (R N ) può svolgere il ruolo di unità del prodotto di convoluzione; però, è possibile costruire delle successioni di funzioni che approssimino l unità, nel senso della definizione seguente: Definizione 1 Una successione di funzioni f n (x) : R N R si dice successione approssimante dell unità se e solo se: Le funzioni f n sono a valori non negativi; f R N n (x) dx = 1 n; Per ogni δ > 0, risulta lim n x δ f n(x) dx = 0. Vediamo qualche esempio di successione approssimante dell unità. In R, la successione di funzioni f n (x) = n 2 χ [ 1 n, 1 n ] (x) verifica tutte le condizioni della definizione 1. Volendo una successione di funzioni continue, si può considerare, per ogni n, la funzione f n (x) nulla fuori di [ 1 n, 1 n ] e il cui grafico raccorda linearmente i punti ( 1 n, 0), (0, n), ( 1 n, 0). Diamo ora un esempio di successione approssimante dell unità composta da funzioni in Cc (R N ). Definiamo ϕ(x) : R N R nel modo seguente: { 1 e x 2 1 x : x < 1; ϕ(x) = 0 x : x 1 Poniamo k = R N ϕ(x) dx, e definiamo f n (x) = nn k ϕ(nx) ; allora f n (x) è una successione approssimante dell unità in C c (R N ). Naturalmente, da una successione f n approssimante l unità è lecito attendersi che, quando n, g f n g, in un senso da precisare, per ogni funzione g. Questo è l argomento della prossima proposizione. Proposizione 4 Sia f n L 1 (R N ) una successione approssimante dell unità, e sia g L p (R N ), con 1 p. Allora: a) Se g L (R N ) e g è continua in x 0, allora lim n g f n(x 0 ) = g(x 0 ); b) Se p <, g f n g in L p (R N ) quando n. a) Fissiamo ε > 0; essendo g continua in x 0, esiste δ > 0 tale che g(x 0 y) g(x 0 ) < ε per ogni y : y < δ. Risulta g f n (x 0 ) g(x 0 ) g(x 0 y) g(x 0 ) f n (y) dy = R N (7) g(x 0 y) g(x 0 ) f n (y) dy + g(x 0 y) g(x 0 ) f n (y) dy y <δ y δ ε f n (y) dy + 2 g f n (y) dy ε + 2 g f n (y) dy, y <δ y δ 6 y δ

8 dove abbiamo tenuto conto del fatto che R N f n (y) dy = 1. Essendo f n un approssimante dell unità, esiste ν N tale che y δ f n(y) dy < ε per ogni n ν; pertanto, dalla (7) abbiamo che il che dimostra il punto a). g f n (x 0 ) g(x 0 ) (1 + 2 g )ε n ν, b) Dal teorema di Young, sappiamo che g f n L P (R N ); vogliamo dimostrare che g f n g in L p (R N ). Tenendo conto del fatto che R N f n (y) dy = 1, abbiamo (8) (g f n )(x) g(x) = (g(x y) g(x))f n (y) dy. R N Se p = 1, dalla (8) abbiamo subito che (9) (g f n )(x) g(x) g(x y) g(x) f n (y) dy, R N mentre, se p > 1, posto q l esponente coniugato di p, possiamo riscrivere la (8) come (g f n )(x) g(x) = (g(x y) g(x))[f n (y)] 1 p [fn (y)] 1 q dy, R N da cui, utilizzando la disuguaglianza di Hölder, si ha (10) (g f n )(x) g(x) p ( g(x y) g(x) p f n (y) dy R N )( [f n (y)] dy R N g(x y) g(x) p f n (y) dy; R N considerando la (9), osserviamo che la (10) è valida anche nel caso p = 1, e quindi per ogni p tale che 1 p <. Integrando la (10) rispetto alla x e utilizzando il teorema di Fubini, abbiamo (11) g f n g p p τ y g g p pf n (y) dy; R N ponendo ϕ(y) = τ y g g p p, la (11) diventa g f n g p p (ϕ f n )(0). Essendo ϕ(y) una funzione continua (v. lemma 1), dal punto a) segue che lim n (ϕ f n)(0) = ϕ(0) = 0, e questo mostra che g f n g in L p (R N ) 7 ) 1 q =

9 In realtà, è possibile individuare l unità del prodotto di convoluzione, ma occorre estendere il concetto di convoluzione ad ambiti più generali degli spazi L p ; qui di seguito daremo solo qualche cenno al riguardo. Sia X lo spazio dei funzionali lineari, continui e positivi su C c (R N ), e sia {Λ n } una successione di elementi di X. Diremo che Λ n Λ X se Λ n (ϕ) Λ(ϕ) per ogni ϕ C c (R N ). Il teorema di Riesz associa, in maniera biunivoca, a ogni elemento di X una misura positiva di Borel, con certe proprietà di regolarità. Pertanto, data una successione di misure µ n che rappresentano altrettanti funzionali Λ n X, e una misura µ che rappresenta Λ X, diremo che µ n µ se e solo se Λ n Λ; ovviamente, tenendo conto del teorema di rappresentazione di Riesz, questo equivale a dire che ϕ(x) dµ n (x) R N ϕ(x) dµ(x) R N ϕ C c (R N ). Ricordiamo, inoltre, che una funzione f L 1 (R N ), a valori non negativi, induce su R N una misura boreliana µ, definita come µ(a) = f(x) dx; l integrale di una qualsiasi A funzione ϕ C c (R N ) rispetto a µ è dato da ϕ(x) dµ(x) = ϕ(x)f(x) dx. Nel R N R N seguito, identificheremo una funzione f L 1 (R N ) a valori positivi e la misura da essa indotta. Infine, indicheremo con δ la misura (detta Delta di Dirac) definita nel modo seguente: δ(a) = 1 se {0} A; δ(a) = 0 se {0} A. Ovviamente, l integrale di una qualsiasi funzione continua rispetto alla misura δ ha, come risultato, il valore della funzione calcolata nel punto x = 0. Siamo ora in grado di enunciare la seguente Proposizione 5 Sia f n (x) una successione approssimante dell unità. Allora f n δ quando n. Indichiamo con µ n le misure indotte dalle f n. L enunciato della proposizione afferma che µ n δ, ovvero che (12) ϕ(x) dµ n (x) = R N ϕ(x)f n (x) dx R N ϕ(x) dδ(x) = ϕ(0) R N ϕ C c (R N ). Posto ϕ(x) = ϕ( x), si ha che R N ϕ(x)f n (x) dx = ( ϕ f n )(0); d altronde, dalla proposizione 4 sappiamo che (13) ( ϕ f n )(0) ϕ(0) = ϕ(0) quando n ; pertanto la (12) segue dalla (13) 8

10 Il fatto che la misura δ sia il limite (nel senso delle misure) di ogni possibile successione approssimante dell unità suggerisce l idea che, in un senso da precisare, la δ costituisca l identità del prodotto di convoluzione. Questa affermazione è vera, purchè si estenda l ambito di definizione del prodotto di convoluzione alle misure. Data una funzione f C c (R N ) e una misura boreliana µ su R N, si definisce (14) (f µ)(x) = f(x y) dµ(y). R N È chiaro che, se la misura µ è indotta da una funzione g L 1 (R N ), la (14) si riconduce alla usuale definizione di f g; inoltre, dalla (14) è evidente che f δ = f per ogni f C c (R N ), e ciò spiega in che senso la δ possa essere considerata l unità del prodotto di convoluzione. Tenendo presente la discussione introduttiva alla proposizione 3, è chiaro che assume una grande importanza poter risolvere problemi del tipo Lu = δ, dove L è un operatore differenziale a coefficienti costanti, e la u prende il nome di soluzione fondamentale per l operatore L; naturalmente l operatore L agisce su u in modo non classico, ma debole, per poter ottenere come risultato una misura come la Delta di Dirac. La teoria matematica che studia l esistenza e le proprietà delle soluzioni fondamentali viene talvolta chiamata teoria del potenziale; una trattazione sistematica della teoria del potenziale esula dai limiti di questo corso. 9

11 Il duale degli spazi L p Sia (X, µ) uno spazio di misura, 1 p, e sia q l esponente coniugato di p. Siamo interessati a studiare lo spazio duale di L p (X, µ), ovvero lo spazio dei funzionali lineari e continui su L p (X, µ). Per il momento, mostriamo che ogni funzione g L q (X, µ) induce un funzionale lineare e continuo su L p (X, µ): Teorema 1 Sia g L q (X, µ), e definiamo (1) Φ(f) = X fg dµ. Allora Φ è un funzionale lineare e continuo su L p (X, µ). Inoltre Φ = g q per 1 q < ; tale uguaglianza vale anche per q = se X è uno spazio σ finito. Il funzionale Φ definito dalla (1) è ovviamente lineare; dalla disuguaglianza di Hölder segue subito che Φ è limitato e Φ g q. Supponiamo ora che 1 < q <, e definiamo { z /z z C \ {0} (2) σ(z) = 1 z = 0 in modo che zσ(z) = z per ogni z C. Poniamo (3) f = g q/p σ(g) ; si ha che f p = g q = fg (ricordiamo che, essendo p, q coniugati, risulta q/p + 1 = q). Pertanto la f definita dalla (3) appartiene a L p (X, µ) e f p = ( g q ) q/p. Calcolando Φ(f) abbiamo (4) Φ(f) = X fg dµ = X g q dµ = g q q = g q f p da cui Φ g q, e dunque Φ = g q. Se q = 1 (e dunque p = ), basta scegliere f = σ(g) e ricalcolare la (4). Se q = (e dunque p = 1), consideriamo l ipotesi aggiuntiva che X sia σ finito, cioè che X = E n, con µ(e n ) <, e poniamo F n = n k=1 n=1 E k. Dalla definizione di estremo superiore essenziale segue che, per ogni ε > 0, l insieme A = {x : g(x) g ε} ha misura strettamente positiva; poiché lim n µ(a F n ) = µ(a), esiste un n tale che 0 < µ(a F n ) <. Poniamo B = A F n e sia f = χ B σ(g); allora Φ(f) = X fg dµ = B g dµ µ(b)( g ε) = f 1 ( g ε) da cui Φ g ε; per l arbitrarietà di ε si ha Φ g = Φ = g 10

12 È naturale chiedersi se tutti i funzionali lineari e continui su L p (X, µ) si possano rappresentare, come nella (1), mediante una funzione g L q (X, µ); in altre parole, ci chiediamo se l isomorfismo isometrico g Φ da L q (µ) a ( L p (µ) ) definito dalla (1) sia surgettivo. La risposta è negativa per p =, nel senso che L 1 (µ), in generale, non fornisce tutti i funzionali lineari e continui su L (µ); è affermativa per 1 < p < e, sotto alcune ulteriori ipotesi su µ (per esempio, nel caso che µ sia σ finita), per p = 1. Più precisamente vale il seguente teorema, che riportiamo senza dimostrazione: Teorema 2 Siano 1 < p, q <, e sia Φ un funzionale in ( L p (µ) ). Allora esiste una e una sola funzione g L q (µ) tale che valga la (1). Tale conclusione sussiste anche se p = 1, q = e la misura µ è σ finita. Mostriamo, invece, che la tesi del Teorema 2 non sussiste, in generale, per p = ; il Teorema 1 ci dice che ogni funzione di L 1 ([a, b]) induce un funzionale lineare e continuo su L ([a, b]), ma questa volta non è vero il viceversa: Proposizione 1 Il duale di L ([a, b]) non è isomorfo a L 1 ([a, b]).. Si tratta, in altre parole, di mostrare che esistono funzionali lineari e continui su L ([a, b]) che non sono rappresentati da nessun elemento di L 1 ([a, b]). Per fissare le idee, sia [a, b] = [ 1, 1], e consideriamo il funzionale ϕ : C([ 1, 1]) C definito nel modo seguente: ϕ(f) = f(0); si tratta di un funzionale lineare e continuo su C([ 1, 1]), di norma ϕ = 1. Un evidente rappresentazione per ϕ è data da ϕ(f) = [ 1,1] f dδ, dove δ è la misura di Dirac in x = 0. Essendo C([ 1, 1]) un sottospazio di L ([ 1, 1]), possiamo estendere ϕ, mediante il teorema di Hahn Banach, a un funzionale lineare Φ definito su tutto L ([ 1, 1]), tale che Φ = 1. La dimostrazione della proposizione consiste ora nel mostrare che non esiste alcuna funzione g L 1 ([ 1, 1]) tale che (9) Φ(f) = 1 1 f(x)g(x) dx f L ([ 1, 1]). Ragioniamo per assurdo: supponiamo che esista g L 1 ([ 1, 1]) tale che la (9) sia vera, e consideriamo la successione di funzioni f n L ([ 1, 1]) definita come { 1 n x x 1/n f n (x) = 0 x > 1/n. 11

13 Le funzioni f n (x) sono continue, e f n (x) 0 x [ 1, 1]\{0}, mentre f n (0) = 1 n. Utilizzando la definizione di ϕ e il teorema della convergenza dominata, e tenendo conto del fatto che ϕ e Φ coincidono sulle funzioni continue, si ha 1 = ϕ(f n ) = Φ(f n ) = 1 1 f n (x)g(x) dx 0, ovvero un assurdo Consideriamo ora gli spazi l p. Ricordiamo che, per definizione, l p = L p (X, M, µ) dove X è un insieme numerabile, M è l insieme delle parti di X e µ è la misura che conta i punti. Per fissare le idee, considereremo X = N. Gli elementi x di l p, con p <, possono essere identificati con le successioni x(k) a valori complessi tali che k=1 x(k) p <, mentre gli elementi di l possono essere identificati con le successioni limitate. Ricordiamo che ( ) 1/p ( x p = x p dµ = x(k) p) 1/p ; x = sup x(k). k N k=1 Essendo gli spazi l p particolari esempi di spazi L p, valgono i risultati sopra enunciati; in particolare, se 1 p <, il duale di l p è isometricamente isomorfo a l q. Questo vuol dire che, per ogni funzionale Φ nel duale di l p, esiste uno e un solo elemento g l q tale che g rappresenta Φ, nel senso che Φ(f) = N fg dµ = f(k)g(k) f l p ; k=1 inoltre Φ = g q. Vale, inoltre, l analogo della proposizione 1: Proposizione 2 Il duale di l non è isomorfo a l 1. Anche in questo caso, si tratta di mostrare che esistono funzionali lineari e continui su l che non sono rappresentati da nessun elemento di l 1. Consideriamo, in l, il sottospazio c delle successioni convergenti. Consideriamo il funzionale ϕ definito da ϕ(x) = lim k x(k). Si tratta di un funzionale lineare e limitato, dato che ϕ(x) x (in realtà, è immediato riconoscere che ϕ = 1). Prolunghiamo ϕ, mediante il teorema di Hahn Banach, a un funzionale lineare Φ definito su tutto l, tale che Φ = 1. La dimostrazione della proposizione consiste ora nel mostrare che non esiste alcun g l 1 tale che (10) Φ(f) = f(k)g(k) f l. k=1 12

14 Ragioniamo per assurdo, e supponiamo che un tale elemento g l 1 esista. Consideriamo la successione di elementi f n l definiti come { 0 k < n f n (k) = 1 k n Gli f n appartengono a c, e risulta lim k f n (k) = 1; pertanto, per ogni n N, si ha 1 = ϕ(f n ) = Φ(f n ) = f n (k)g(k) = k=1 g(k) e questo è assurdo, perché il resto n simo di una serie assolutamente convergente non può essere uguale a 1 per ogni n Dunque, l 1 non è il duale di l, nel senso che è isomorfo a un sottospazio proprio del duale di l. Mostriamo, invece, che l 1 rappresenta il duale di un sottospazio chiuso di l ; si tratta di c 0, ovvero lo spazio delle successioni infinitesime. In altre parole, x c 0 se e solo se lim k x(k) = 0. Ricordiamo che N, dotato della topologia discreta, è uno spazio di Hausdorff localmente compatto (ogni punto è compatto e ogni punto è intorno di se stesso); pertanto, c 0 non è altro che C 0 (N), ovvero lo spazio delle funzioni continue nulle all infinito. Sappiamo (vedi Rudin, Analisi Reale e Complessa) che, se X è uno spazio di Hausdorff localmente compatto, allora C 0 (X), dotato della norma, è uno spazio di Banach, in cui è denso lo spazio C c (X) delle funzioni continue a supporto compatto. Dunque, c 0 è uno spazio di Banach, ed è la chiusura, nella norma, di c c = C c (N), ovvero lo spazio delle successioni definitivamente nulle: x c c x(k) = 0 per k sufficientemente grande. Come abbiamo già detto, vale la seguente k=n Proposizione 3 Il duale di c 0 è (isometricamente isomorfo a) l 1. Come già sappiamo, ogni elemento g l 1 induce un funzionale lineare e continuo Φ su l, e dunque su c 0, nel senso che (11) Φ(f) = N fg dµ = f(k)g(k) f c 0 ; k=1 inoltre Φ = g 1. Mostriamo ora che vale il viceversa; precisamente, fissiamo Φ (c 0 ) e facciamo vedere che esiste una (e una sola) g l 1 tale che valga la (11). A tale scopo, consideriamo gli elementi e n c 0 definiti come { 1 se k = n; e n (k) = 0 se k n 13

15 e consideriamo g definito da g(n) = Φ(e n ). Si tratta di dimostrare che g l 1 e che vale la (11). Per costruzione, la (11) vale se f = e n, per ogni n. Pertanto, per linearità, la (11) vale se f è una combinazione lineare finita di elementi della famiglia e n, e cioè se f c c. Consideriamo, in particolare, la successione f n definita da { σ(g(k)) k n f n (k) = 0 k > n dove σ è data dalla (2). Risulta f n = 1 n, e pertanto Φ(f n ) Φ ; d altronde, per ciascuna f n vale la (11), e quindi (12) Φ Φ(f n ) = f n (k)g(k) = k=1 n g(k). Dalla (12) si ottiene che g l 1 ; resta ora da dimostrare la validità della (11) per tutte le f c 0. Fissiamo f c 0 ; dalla densità di c c in c 0 segue che esiste una successione f n c c tale che f n f 0. Per continuità, Φ(f n ) Φ(f); d altra parte, abbiamo già visto che la (11) vale per tutte le funzioni di c c, e quindi (13) Φ(f n ) = Essendo g l 1, si ha N N k=1 f n g dµ Φ(f). (f n f)g, dµ f n f g 1 0, dunque (14) f n g dµ N N fg dµ = f(k)g(k) ; k=1 da (13) e (14) segue la tesi 14

16 La convergenza debole (I) definizione e prime proprietà Dall analisi elementare sappiamo che, in R N e C N, gli insiemi limitati e chiusi sono compatti. La situazione è più complicata in dimensione infinita: in generale, in uno spazio normato X la palla unitaria B X = {x : x 1} non è compatta. Più precisamente, sussiste il seguente teorema (che non dimostreremo): Teorema 1 (Riesz) Sia X uno spazio normato in cui B X è compatta. Allora X ha dimensione finita. Si può allora tentare di indebolire la topologia su X, in modo tale che i limitati siano relativamente compatti (ovvero a chiusura compatta) rispetto a questa nuova (e più debole) topologia. Ricordiamo che, assegnate due topologie τ 1 e τ 2 su un insieme X, diciamo che τ 2 è più debole di τ 1, e lo denotiamo con τ 2 τ 1, se ogni insieme aperto per τ 2 è aperto anche per τ 1 ; in altre parole, se τ 2 ha meno aperti di τ 1. Poiché un insieme è compatto se da ogni suo ricoprimento aperto si può estrarre un sottoricoprimento finito, è evidente che in un insieme X dotato di due topologie τ 1 e τ 2, con τ 2 τ 1, ogni sottoinsieme compatto per τ 1 sarà, a maggior ragione, compatto per τ 2 ; in altre parole, (X, τ 2 ) ha più compatti di (X, τ 1 ). D altronde, c è un prezzo da pagare per l indebolimento di una topologia: infatti, se Y è un altro spazio topologico, posto C(X, Y ) lo spazio delle applicazioni continue tra X e Y, risulta C((X, τ 2 ), Y ) C((X, τ 1 ), Y ); infatti, un applicazione è continua se la controimmagine di ogni aperto è un aperto, e dunque ci sono più applicazioni continue (X, τ 1 ) Y rispetto a (X, τ 2 ) Y. Il nostro obiettivo, dunque, è quello di indebolire la topologia, indotta dalla norma, di uno spazio normato X sul corpo C (o R) in modo che i limitati diventino, nella nuova topologia, relativamente sequenzialmente compatti (questo vuol dire semplicemente che ogni successione limitata ammette una sottosuccessione convergente nella nuova topologia), salvaguardando, al tempo stesso, la continuità della maggior quantità possibile di funzioni da X a valori in C (o R). In quel che segue, salvo avviso contrario, sottintenderemo che gli spazi normati (o di Banach) sono tutti sul corpo C. Definizione 1 Sia X uno spazio normato. Indichiamo con X il duale topologico di X, cioè l insieme di tutti i funzionali lineari e continui f : X C. Proposizione 1 Sia X uno spazio normato. Allora il suo duale topologico X, dotato della norma f(x) (1) f = sup x 0 x è uno spazio di Banach = sup f(x) x =1 È evidente che X è uno spazio vettoriale; infatti, se f X, anche λf X, e dalla (1) segue che λf = λ f. Mostriamo ora che f, g X = f + g X e che f + g f + g. Infatti (2) (f + g)(x) = f(x) + g(x) f(x) + g(x) f x + g x = ( f + g ) x 15

17 da cui si vede che f + g è un funzionale lineare e limitato, e dunque f + g X ; inoltre, dalla (2) segue che f + g f + g. Resta da dimostrare la completezza di X. Sia dunque f n una successione di Cauchy in X ; ciò vuol dire che, ε > 0 risulta f n f m < ε per n, m sufficientemente grandi. Fissato x X risulta (3) f n (x) f m (x) f n f m ε x per n, m sufficientemente grandi; quindi, f n (x) è una successione di Cauchy in C, e pertanto f n (x) converge verso un numero complesso, dipendente da x, che indicheremo con f(x). Essendo f(x) limite puntuale della successione di funzionali lineari f n (x), risulta f un funzionale lineare; inoltre, essendo la successione f n di Cauchy rispetto alla norma, essa è limitata in norma, cioè esiste 0 C < tale che f n C n. Questo vuol dire che f n (x) C x n; passando al limite, si ottiene che f(x) C x, e pertanto f è limitato. Riassumendo, f è un funzionale lineare e limitato su X, e quindi f X ; per ora sappiamo che f n f puntualmente, mentre ci resta da dimostrare che f n f nella norma di X. A tal fine, riconsideriamo la (3), e mandiamo m all infinito; otteniamo che, per n sufficientemente grande, risulta ovvero f n f ε f n (x) f(x) ε x, Alcune conseguenze del teorema di Hahn Banach sono enunciate nella seguente Proposizione 2 Sia X uno spazio normato. a) Sia M un sottospazio di X, e x 0 X. Allora x 0 M f X : f M 0 e f(x 0 ) 0. b) Sia x 0 0. Allora f X tale che f = 1 e f(x 0 ) = x 0. c) Se x 1, x 2 X, x 1 x 2, allora f X tale che f(x 1 ) f(x 2 ). d) Risulta x = max{ f(x) : f X, f = 1} x X. a) Un implicazione è ovvia, e prescinde dal teorema di Hahn Banach: se f X si annulla su M, allora, per continuità f si annulla su M; pertanto, f(x 0 ) 0 = x 0 M Viceversa, supponiamo che x 0 / M. Allora esiste un δ > 0 tale che x x 0 > δ x M. Sia M 1 = {x + λx 0, x M, λ C} il sottospazio generato da M e da x 0, e definiamo f(x + λx 0 ) = λ. Essendo λx 0 + x = λ x 0 + λ 1 x δ λ = δ f(λx 0 + x) si osserva che f è un funzionale lineare su M 1 la cui norma è limitata da 1/δ; pertanto f è continuo su M 1. Inoltre f M 0 e f(x 0 ) = 1; mediante il teorema di Hahn Banach, si può estendere f a tutto X. 16

18 b) Poniamo M = λx 0, λ C, e definiamo f(λx 0 ) = λ x 0. f è un funzionale lineare limitato su M, con f = 1, che si può estendere a tutto X per Hahn Banach. c) Basta applicare il punto b) a x 0 = x 1 x 2. d) Fissiamo x X. f X, f 1, si ha f(x) x. Questa disuguaglianza diviene, almeno per un particolare funzionale, un uguaglianza: infatti, per il punto b), g X, g = 1, tale che g(x) = x. Pertanto x = max{ f(x) : f X, f = 1} Nel seguito, sarà utile considerare anche lo spazio duale di X, che denoteremo con X e che chiameremo spazio biduale di X. La proposizione che segue mostra che, in un senso che verrà specificato, X X. Proposizione 3 Sia X uno spazio normato e X il suo spazio biduale. Allora esiste un isometria lineare J : X X. Osservazione. L isometria J, in quanto tale, è iniettiva, e possiamo concludere che X contiene un sottospazio J(X) isomorfo, mediante J, a X. In seguito considereremo il caso, particolarmente importante, in cui l isometria J è anche surgettiva. Fissiamo x X, e consideriamo l applicazione X C che a ogni f X fa corrispondere il numero complesso f(x). Questa applicazione è un funzionale lineare e continuo su X, e dunque è un elemento di X, che denotiamo con J x. Resta così definita l applicazione J : X X, x J x. Evidentemente, J è lineare e limitata (ovvero continua): infatti, essendo J x (f) = f(x) x f, si ha J x x ; per il punto b) della proposizione 2, f X, f = 1, tale che f(x) = x, e risulta J x (f) = f(x) = x = x f, da cui J x = x ; ciò mostra che J è un isometria Nel seguito, riserveremo il simbolo J all isometria tra X e un sottospazio di X la cui esistenza è stata ora provata. Definizione 2 Uno spazio di Banach X si dice riflessivo se l isometria J tra X e X è surgettiva. Esempi importanti di spazi riflessivi sono: gli spazi di Hilbert (è una conseguenza immediata del teorema di rappresentazione di Riesz, che fornisce un isomorfismo tra uno spazio di Hilbert e il suo duale); gli spazi di Banach di dimensione finita (che risultano sempre essere isomorfi a C N, o a R N se reali); L p (X, µ), con 1 < p <. Infatti, ( ( L p (X, µ)) = L q (X, µ), e L q (X, µ)) = L p (X, µ), 17

19 con p e q esponenti coniugati (il segno di = sottintende l identificazione usuale tra spazi isometricamente isomorfi). Osserviamo esplicitamente che, poiché il duale (e quindi il biduale) di uno spazio normato è necessariamente uno spazio completo, la definizione di spazio riflessivo riguarda esclusivamente spazi di Banach. Un esempio di spazio non riflessivo è dato da L 1 ([a, b]), dove [a, b] è dotato della misura di Lebesgue. Infatti, come è noto, ( L 1 ([a, b])) = L ([a, b]), ma ( L ([a, b])) L 1 ([a, b]). La proposizione seguente riguarda i sottospazi chiusi degli spazi riflessivi. Proposizione 4 Sia X uno spazio di Banach riflessivo, e M un suo sottospazio chiuso. Allora M è riflessivo. Denotiamo con J M l isomorfismo canonico tra M e M. Sappiamo che J : X X è surgettivo, e vogliamo dimostrare che anche J M lo è. Sia w M. Definiamo v X ponendo v(f) = w(f ) f X. Essendo X M riflessivo, x X tale che J x = v. Noi asseriamo che, in realtà, x M. Infatti, se per assurdo x / M, allora, essendo M chiuso, per il punto a) della proposizione 2 esisterebbe almeno un funzionale f X tale che f(x) = 1 ma f 0. Allora si avrebbe M 1 = f(x) = v(f) = w(f M ) = w(0) = 0, ovvero una contraddizione. Quindi x M; tenendo conto del fatto che, per Hahn Banach, ogni funzionale ϕ M può essere prolungato a un funzionale ϕ X, risulta J M x (ϕ) = ϕ(x) = ϕ(x) = J x (ϕ) = v(ϕ) = w(ϕ), ovvero J M x = w. Pertanto J M è surgettivo Proposizione 5 Uno spazio di Banach X è riflessivo se e solo se lo è il suo duale X. Indicheremo con J e J rispettivamente le isometrie canoniche di X in X e di X in X. Supponiamo X riflessivo, e sia F X. Definiamo f = F J, e osserviamo che f X, perchè f : X C ed è lineare e continuo (composizione di applicazioni lineari e continue). Dall ipotesi di riflessività di X, sappiamo che g = J x per ogni g X. Si ha dunque F (g) = F (J x ) = f(x) = J x (f) = J f (J x ) = J f (g) da cui F = J f ; pertanto J è surgettiva, cioè X è riflessivo. Viceversa, sia X riflessivo, e supponiamo per assurdo che X non lo sia. Allora J(X) è un sottospazio chiuso di X, ed esiste x X \ J(X). Per il punto a) della proposizione 2, esiste F X tale che F J(X) 0 ma F (x) 0. 18

20 Ma X è riflessivo, dunque F, nell identificazione canonica tra X e X, proviene da un f X, e F (x) = x(f) 0; d altra parte, F J(X) 0 vuol dire che tutti i funzionali in J(X) si annullano su f, ovvero, usando l identificazione canonica J, f X si annulla su tutti gli x X. Dunque, f = 0, ma allora è assurdo che x(f) 0. Pertanto, se X è riflessivo, anche X lo è Nel seguito definiremo, negli spazi normati, una convergenza più debole di quella indotta dalla norma. Utilizzando il concetto di convergenza, è naturale che un ruolo rilevante sia giocato dalla proprietà di separabilità (ricordiamo che uno spazio topologico si dice separabile se ammette un sottoinsieme numerabile denso). La separabilità è una proprietà che gli spazi normati ereditano dai propri spazi duali, come mostra la seguente Proposizione 6 Sia X uno spazio normato, e supponiamo che il suo duale X separabile. Allora anche X è separabile. Per ipotesi, esiste una successione {f n } densa in X. Tenendo presente la definizione di norma di un funzionale, si riconosce immediatamente che n x n X tale che x n = 1 e f n (x n ) f n 2. Sia M la varietà lineare chiusa generata dai punti x n, ovvero la chiusura dell insieme formato da tutte le combinazioni lineari finite degli x n. Per costruzione, M è separabile (le combinazioni lineari finite degli x n con coefficienti aventi parte reale e parte immaginaria in Q sono dense in M); la nostra proposizione risulterà pertanto dimostrata se facciamo vedere che M = X. Supponiamo, per assurdo, che M X. Allora, preso un x X \ M, per il punto a) della proposizione 2 f X tale che f 0 ma f(x) 0; ovviamente, possiamo supporre M f = 1. Risulta sia f n 2 f n (x n ) = f n (x n ) f(x n ) f n f x n = f n f ; quindi 1 = f f f n + f n 3 f f n, e questo è assurdo, perché {f n } è densa in X. Dunque M = X, cioè X è separabile Corollario 1 Sia X uno spazio di Banach riflessivo e separabile. Allora X è separabile. Essendo X isometricamente isomorfo a X, X è separabile. Per la proposizione precedente, anche X lo è Abbiamo acquisito le proprietà basilari degli spazi duali che ci sono necessarie. Ora siamo in grado di definire la convergenza debole, proseguendo nel programma che abbiamo delineato all inizio. Definizione 3 Sia X uno spazio normato. Si dice che una successione {x n } X converge debolmente a x X, e lo si indica con x n x, se f(x n ) f(x) f X. 19

21 Per distinguere i concetti, la convergenza in norma viene anche detta convergenza forte. Ovviamente, x n x x n x, poiché, se x n x, allora f(x n ) f(x) f X, essendo X lo spazio dei funzionali lineari e continui (rispetto alla norma, cioè alla convergenza forte). Dunque la convergenza forte implica la convergenza debole, mentre non è vero il viceversa, come mostra il seguente Esempio 1 Sia X = L 2 ([0, 2π]). La successione di funzioni e int converge debolmente a zero: infatti, come è noto dalla teoria delle serie di Fourier, e int, f(t) = 2π e int f(t) dt 0 0 f X; questo tenuto conto del teorema di rappresentazione di Riesz negli spazi di Hilbert, equivale a dire che e int 0. D altronde, e int = 2π n, e dunque e int 0. Si può dimostrare che la convergenza debole è indotta da una topologia su X, precisamente la topologia meno fine fra tutte quelle che rendono continui tutti i funzionali in X. Si può anche dimostrare che questa topologia, se X ha dimensione infinita, non è metrizzabile. Abbiamo così realizzato una parte del nostro programma: abbiamo indebolito la topologia indotta dalla norma di X, mantenendo la continuità di una gran quantità di applicazioni su X (precisamente, i funzionali f X ). Ora si tratta di vedere, eventualmente aggiungendo ulteriori ipotesi, se in questa topologia i limitati sono relativamente compatti. In X abbiamo due convergenze: quella forte, indotta dalla norma, e quella debole, generata, nel modo che si è visto, dai funzionali di X. Introduciamo ora su X una terza convergenza, ancora più debole della convergenza debole. Definizione 4 Sia X il duale di uno spazio normato X. Si dice che una successione {f n } X converge debolmente (si legge debolmente star ) a f X, e lo si indica con f n f, se fn (x) f(x) x X. È immediato vedere che, in X, la convergenza debole è più debole della convergenza debole, e che i due concetti coincidono se X è riflessivo (equivalentemente, se X è riflessivo: vedi la proposizione 5). Basta, infatti, osservare che f n (x) = J x (f n ), e quindi la convergenza debole non è altro che la convergenza debole in X, generata, però, non da tutti i funzionali in X, ma solo da quelli in J(X) X. Ad esempio, sia X = L 1 ([ 1, 1]), dove [ 1, 1] è dotato della misura di Lebesgue, e consideriamo in X = L ([ 1, 1]) la successione di funzioni f n (t) = e nt2. È facile vedere 1 che f n 0: questo, per definizione, vuol dire che 1 f n(t)g(t) dt 0 g L 1 ([ 1, 1]), e una banale applicazione del teorema della convergenza dominata mostra che ciò è vero. Ma f n (t) 0; infatti, tra i funzionali di X = ( L ([ 1, 1]) ) c è anche il prolungamento, ottenuto tramite il teorema di Hahn Banach, della δ di Dirac nell origine, che è un funzionale lineare e continuo su C([ 1, 1]. Chiamiamo T questo prolungamento; si ha T (f n ) = f n (0) = 1 n, e dunque non è vero che f n (t) 0. 20

22 Cominciamo con il dimostrare alcune proprietà elementari della convergenza debole Proposizione 7 Sia X uno spazio normato. a) (unicità del limite debole) Sia x n x, x n x ; allora x = x. b) Se x n x, y n y, allora x n + y n x + y. c) Se {λ n } C, λ n λ C e x n x, allora λ n x n λx. d) Sia Y uno spazio normato, e T : X Y un operatore lineare e limitato. Supponiamo che x n x in X; allora T x n T x in Y. a) Per ogni f X, risulta f(x n ) f(x ), ma anche f(x n ) f(x ), e dunque f(x ) = f(x ) f X. Dal punto c) della proposizione 2 segue allora che x = x. b) Per ogni f X, risulta f(x n ) f(x) e f(y n ) f(y), e dunque f(x n + y n ) = f(x n ) + f(y n ) f(x) + f(y) = f(x + y). c) Tenendo conto del fatto che la successione convergente λ n è limitata, per ogni f X si ha f(λ n x n ) f(λx) f(λ n x n ) f(λ n x) + f(λ n x) f(λx) = = λ n f(x n ) f(x) + λ n λ f(x) C f(x n ) f(x) + λ n λ f(x) 0 d) Sia f Y ; allora f T X, e quindi (f T )(x n ) (f T )(x), cioè f(t x n ) f(t x) In uno spazio normato, le successioni (fortemente) convergenti sono limitate; mostriamo ora che questo è vero anche per le successioni debolmente convergenti. Per giungere a questo risultato, diamo dapprima la seguente Definizione 5 Un sottoinsieme A di uno spazio normato X si dice debolmente limitato se l insieme {f(x), x A} risulta limitato in C per ogni f X. La proposizione seguente asserisce l equivalenza dei concetti di limitatezza (forte, ovvero rispetto alla norma) e debole limitatezza: Proposizione 8 Un sottoinsieme A di uno spazio normato X è debolmente limitato se e solo se è limitato. Se A è limitato, allora esiste K tale che x K x A. Ma allora risulta f(x) f x K f per ogni f X, e dunque A è debolmente limitato. Viceversa, supponiamo che A sia debolmente limitato. Si consideri, in X, la famiglia di operatori {J x } x A. Gli operatori J x vanno da X, che è uno spazio di Banach, in C, e, per la definizione dell isometria J, risulta J x f = f(x) f X. Dall ipotesi di debole limitatezza di A segue che l insieme {J x f, x A} è limitato in C; pertanto, il teorema di Banach Steinhaus implica che la famiglia di operatori {J x } x A è limitata, cioè K tale che J x K x A. Ma J è un isometria di X in X, e quindi x K x A 21

23 Corollario 2 Ogni successione x n debolmente convergente in uno spazio normato è limitata. Se x n x, allora f(x n ) f(x) f X ; in particolare, la successione f(x n ) è limitata in C per ogni f X, e quindi x n è debolmente limitata; ma allora, per la proposizione 8, essa è limitata Corollario 3 Supponiamo che x n x in X spazio normato, mentre f n f in X. Allora f n (x n ) f(x). Dal corollario precedente sappiamo che esiste K tale che x n K. Si ha f n (x n ) f(x) f n (x n ) f(x n ) + f(x n ) f(x) f n f x n + f(x n ) f(x) K f n f + f(x n ) f(x) 0 Per definizione, gli elementi di X sono i funzionali lineari e continui (rispetto alla convergenza forte) su X; in questo contesto la parola continuità significa che x n x = f(x n ) f(x). D altra parte, la convergenza debole, per sua stessa definizione, conserva la proprietà di continuità degli elementi di X : infatti, x n x = f(x n ) f(x) per ogni f X. Dunque, abbiamo indebolito il concetto di convergenza, mantenendo inalterata la continuità degli elementi di X. 22

24 La convergenza debole (II) teoremi di compattezza e di semicontinuità Siamo ora in grado di completare il nostro programma, individuando sotto quali ipotesi le successioni limitate in uno spazio di Banach ammettono sottosuccessioni debolmente convergenti. Per cominciare, diamo un risultato di compattezza negli spazi duali. Teorema 2 (Banach Alaoglu) Sia X uno spazio normato separabile, e {f n } una successione limitata di funzionali in X. Allora esiste una sottosuccessione estratta f nk che converge debolmente. La successione f n è limitata, dunque M tale che f n M. Sia {x n } una successione densa in X; consideriamo x 1. La successione di numeri complessi f n (x 1 ) è limitata in C, quindi possiamo estrarre una sottosuccessione f n (1) (x 1 ) convergente. Consideriamo ora x 2 ; f n (1) (x 2 ) è limitata, e quindi esiste una sottosuccessione f n (2) (x 2 ) convergente. Iterando questo procedimento, si costruisce una sottosuccessione estratta g n = f n (n) che converge in ogni x k. Sia ora x X. Fissato ε > 0, x k : x x k < ε, e ν : g n (x k ) g m (x k ) < ε n, m > ν. Risulta g n (x) g m (x) g n (x) g n (x k ) + g n (x k ) g m (x k ) + g m (x k ) g m (x) ( g n + g m ) x x k + g n (x k ) g m (x k ) (2M + 1)ε n, m > ν e quindi, per la completezza di C, lim g n(x). Poniamo g(x) = lim g n(x); è evidente n n che g X, perché g è lineare ed è continuo, in quanto g(x) M x. Abbiamo così dimostrato che dalla successione f n si può estrarre una sottosuccessione g n che converge debolmente a g X Teorema 3 Sia X uno spazio di Banach riflessivo, e {x n } una successione limitata in X. Allora esiste una sottosuccessione estratta {x nk } che converge debolmente. La successione x n è limitata, quindi esiste K tale che x n K. Definiamo Y come la varietà lineare chiusa generata da {x n }, ovvero la chiusura dell insieme formato da tutte le combinazioni lineari finite degli x n. Y è uno spazio di Banach separabile (le combinazioni lineari finite degli x n con coefficienti aventi parte reale e parte immaginaria in Q sono dense in Y ) e riflessivo, in quanto sottospazio chiuso di X (vedi la proposizione 4). Pertanto, dalla proposizione 5 segue che Y è riflessivo e separabile. La successione x n è, ovviamente, limitata in Y ; sia J xn la successione di elementi in Y corrispondente, tramite l isometria canonica J, alla successione x n in Y. La successione J xn è limitata in Y, essendo J un isometria, e dunque J xn K. Per il teorema di Banach Alaoglu esiste una sottosuccessione J xnk che converge debolmente in Y, cioè esiste y Y tale che J xnk (f) y (f) per ogni f Y. 23

25 Poiché Y è riflessivo, esiste y Y tale che y = J y. Noi asseriamo che x nk y. Infatti, se f X, posto g = f si ha Y f(x nk ) = g(x nk ) = J xnk (g) y (g) = J y (g) = g(y) = f(y) In realtà, si può dimostrare (teorema di Eberlein) che vale anche il viceversa di quanto asserito dal teorema precedente: se in uno spazio di Banach X ogni successione limitata ammette una sottosuccessione debolmente convergente, allora X è riflessivo. Una delle principali applicazioni elementari della teoria della convergenza debole consiste nel determinare l esistenza di minimi per funzionali definiti su spazi di Banach, problema cardine di tutta la teoria matematica che va sotto il nome di Calcolo delle variazioni. Il calcolo delle variazioni si occupa, in generale, della ricerca dei minimi (o dei punti critici) di funzionali; moltissimi problemi derivanti dalla fisica o da altre scienze si traducono nella ricerca di un minimo di un espressione (il funzionale) definita in un opportuno spazio di funzioni. Per enunciare qualche risultato in questa direzione, diamo prima la seguente Definizione 6 Sia X uno spazio normato. Un funzionale F : X R si dice coercivo se lim F (x) = +. x + Osserviamo esplicitamente che il termine funzionale non è riservato ai funzionali lineari, ma riguarda, in generale, qualsiasi funzione da uno spazio normato a valori in R o in C. Uno strumento di base è costituito dal seguente teorema, che costituisce la versione del classico teorema di Weierstrass in dimensione infinita: Teorema 4 Sia X uno spazio di Banach riflessivo, e F : X R un funzionale debolmente semicontinuo inferiormente e coercivo. Allora F assume valore minimo in X. Sia l = inf F ; allora esiste una successione x n X tale che F (x n ) l. La coercività di F implica che x n è limitata; essendo X un Banach riflessivo, esiste un estratta x nk debolmente convergente a un elemento x X. Poichè F è debolmente semicontinuo inferiormente, risulta l F (x) lim k F (x n k ) = l, da cui F (x) = l, e dunque l è un valore assunto da F Dalla definizione di convergenza debole, sappiamo che gli elementi di X sono debolmente continui. Un problema importante, anche alla luce del teorema 4, è quello di determinare altre classi di funzioni che godano di proprietà di continuità (o di semicontinuità) 24

26 rispetto alla convergenza debole. Per cominciare, mostriamo che la norma è semicontinua inferiormente rispetto alla convergenza debole. Proposizione 9 Supponiamo che x n x in X spazio normato. Allora x lim n x n. Sappiamo dal punto b) della proposizione 2 che esiste un funzionale f X tale che f = 1 e f(x) = x. Dall ipotesi segue che f(x n ) f(x) = x, e quindi f(x n ) x. Ma f = 1, per cui f(x n ) x n ; passando ai minimi limiti, segue la tesi Corollario 4 Sia g : R + R una funzione monotona crescente e semicontinua inferiormente, e X uno spazio normato. Allora la funzione g( x ) : X R è semicontinua inferiormente rispetto alla convergenza debole. Sia {x n } una successione in X e x X tali che x n x. Fissiamo ε > 0; la semicontinuità inferiore di g vuol dire che, in corrispondenza di ε, esiste δ > 0 tale che g(t) > g( x ) ε per ogni t [0, + ) : t x < δ. Dalla proposizione precedente sappiamo che, definitivamente, x n x δ 2, e quindi, essendo g crescente, si ha definitivamente g( x n ) g( x δ 2 ) > g( x ) ε. Pertanto, tutti i valori di accumulazione della successione g( x n ) sono più grandi di g( x ) ε; per l arbitrarietà di ε, si ottiene che g( x ) lim g( x n ) n In particolare, x p è debolmente semicontinua inferiormente per ogni p > 0. Ora che abbiamo mostrato come la norma sia semicontinua inferiormente rispetto alla convergenza debole, vogliamo capire cosa accade quando x n x e x n x. Cominciamo a esaminare un caso molto semplice, il caso degli spazi di Hilbert: Proposizione 10 Sia H uno spazio di Hilbert, e {x n } H una successione tale che x n x. Allora x n x x n x. Chiaramente dobbiamo solo dimostrare l implicazione =. Risulta x n x 2 = x n x, x n x = x n 2 + x 2 2Re x n, x x 2 + x 2 2 x, x = 0 Dunque, in uno spazio di Hilbert possiamo affermare che, se x n x ma x n x, allora la norma tende a diminuire quando si passa da x n a x. Questa proprietà non è valida solo negli spazi di Hilbert, ma in una grande quantità di spazi di Banach, i cosiddetti spazi uniformemente convessi, di cui diamo ora la definizione. Definizione 7 Uno spazio di Banach X si dice uniformemente convesso se e solo se ε > 0 δ > 0: { } x 1, y 1, x y > ε = x + y < 1 δ 2 25

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